Nella cucina di Cracco la perfezione è non cambiar nulla
JOHN BALDESSARI,
americano, 87 anni, è uno dei più grandi artisti viventi e anche uno dei più originali. Anni fa bruciò le sue opere giovanili, tutte, perché non gli sembravano più rappresentative di quello che davvero voleva dire. Cerca, ancora oggi, di realizzare un’opera radicalmente diversa da quella precedente; è alla soglia dei 90 il più ribelle di tutti, un indipendente che ha vinto tutti i premi dal Leone d’Oro della Biennale al Guggenheim. È un uomo molto simpatico, e molto semplice (attribuisce il suo pragmatismo schivo al Dna trentino/danese), dotato di grande senso dello humour (a Milano, alla Fondazione Prada, portò grandi statue-parodia di quelle di Giacometti: una meraviglia). Qualche anno fa quando lo intervistai mi raccontò di essere amico del grande chef Thomas Keller e di aver imparato da lui una cosa importantissima.
E cioé che gli chef più riescono a replicare perfettamente, all’infinito, l’esecuzione dello stesso piatto e più sono bravi. Keller ha spiegato all’artista che cambia sempre tutto e brucia il passato, l’importanza dell’esecuzione costante dello stesso piatto,
dagli spaghetti al pomodoro all’alta cucina molecolare una volta che la ricetta è stata definita, maniacalmente, nei suoi particolari più infinitesimali, va riprodotto esattamente così, ripetizione dopo ripetizione, piatto Carlo Cracco, 53 anni, in una puntata di in onda dal 2014 su SkyUno e basato sull’omonima versione statunitense del programma guidato da Gordon Ramsay dopo piatto, giorno dopo giorno. Così uno chef stabilisce un’identità, uno stile, per se stesso e il suo ristorante. Con la ripetizione.
È una regola cardine, tra l’altro, del branding: nella lattina o nella bottiglietta (io preferisco la bottiglietta, peraltro) o nel bottiglione formato famiglia, sempre di Coca-Cola si tratta. È il segreto del suo successo. Ha sempre lo stesso colore, lo stesso sapore. Non è che una volta apri la lattina ed esce la Pepsi o la Fanta. No, è sempre Coca-Cola.
ECCO PERCHÉ
mi è sempre sembrato assurdo criticare programmi come Hell’s Kitchen, appena ripartito su SkyUno. La formula è quella, lanciata da Gordon Ramsay nel 2004, e quella sostanzialmente rimane. Cucinare sotto pressione, fare lavoro di squadra, non sbagliare. Le ombre cinesi della scenografia, le luci. Regno Unito, Usa, Italia: stessa formula, cambiano gli chef.
NELLA VERSIONE ITALIANA
c’è Cracco che ha fama di cattivone (in realtà è un uomo molto gentile, spero di non rovinargli la reputazione scrivendolo) ma rispetto al Ramsay di una volta, crudele ai limiti della sociopatia, Cracco è semplicemente molto rigido. Però è difficile trovare persone serene come monaci Zen se per training professionale devono far funzionare dei business complicatissimi come i ristoranti (bassa marginalità, legislazione spesso demenziale, altissima deperibilità delle materie prime, eccetera) e lavorano in cucine che raggiungono anche i 55 gradi di temperatura ambientale (immaginate di lavorare in ufficio regolarmente sopra i 50 gradi: ridimensiona anche la comprensibile avversione per colleghi e colleghe che spengono a tradimento l’aria condizionata perché soffrono di “cervicale”).
Insomma è il solito Hell’s Kitchen con il solito Cracco: è un brand.
In questo caso, è una versione ben fatta di un programma che sappiamo già cosa ci dice; un piatto del quale, nel bene e nel male, conosciamo già il sapore.