L’Unesco adotta il reggae ma dimentica la canzone napoletana
MA ALL’UNESCO
conoscono Fenesta ca lucive di Guglielmo Cottrau o Era de maggio di Mario Costa e Salvatore Di Giacomo? C’è da dubitarne… E ha perfettamente ragione il critico musicale, saggista e sceneggiatore Federico Vacalebre che sul Mattino di Napoli, dopo essersi felicitato per la scelta parigina di riconoscere il «reggae» come patrimonio culturale dell’umanità, ha strapazzato politici, intellettuali e istituzioni culturali partenopee per non avere neppure promosso mai la candidatura a patrimonio immateriale dell’umanità anche la canzone classica napoletana: «Ci si è andati vicini, ma burocrazie, gelosie di settore, incapacità politiche hanno portato al solito risultato: zero».
Per carità, aggiunge, onore a chi, come il «cantu a tenore» sardo ha ottenuto il riconoscimento Unesco ormai da tredici anni. Ma la canzone napoletana?
Amatissima anche da grandi artisti legati alla lirica e in genere alla musica classica come Enrico Caruso, Franco Corelli, Beniamino Gigli, Tito Schipa, Giuseppe Di Stefano, la canzone napoletana classica tutto può essere considerata tranne che, come qualcuno pensa, una «canzonetta».
SONO ANNI
che sulla questione batte e ribatte un profondo conoscitore quale il raffinatissimo musicologo e scrittore (l’ultimo libro è La dotta lira. Ovidio e la musica) come Paolo Isotta. Il quale non solo detesta l’abbinamento con «stereotipi applicabili semmai a epoche posteriori, grazie a che italiani e stranieri parlano di maccheroni, mare, Enrico Caruso canta alla festa della polizia di New York, a Manhattan, il primo gennaio 1917
pizza e mandolini come di divertenti manifestazioni di sotto-uomini, eterni bambini che s’accontentano d’essere comparse di cartoline. Quasi fossero hawaiani». Ma riconosce alla musica classica napoletana di essere un’arte straordinaria: «Intensa, profonda, effusa». Da non confondere con altre cose. Dice tutto l’ultima intemerata sul sito isottiano, qualche settimana fa, contro la scelta del Conservatorio di Benevento di conferire la laurea honoris causa al cantante Gigi D’Alessio «per aver portato la canzone napoletana nel mondo».
«Io sono un insegnante di Conserva- torio dimissionario dal 1994 perché il decadimento della paidèia musicale mi aveva disgustato», scrive Isotta, «non posso dare le dimissioni due volte» ma «se fossi insegnante a Benevento mi dimetterei». Perché?
«Il direttore del Conservatorio di Benevento, fautore del provvedimento di nomina, forse sa chi sono Bach e Beethoven; di certo non sa cos’è la canzone napoletana.
La canzone napoletana (su di essa si legga, da ultimo, il meraviglioso libro La canzone napolitana di Roberto De Simone, Einaudi, 2017) ha una storia ottocentesca quanto a compositori: fra i quali sommi come Donizetti, Mercadante e Tosti; storia che continua nel Novecento con autori meno paludati ma sovente geniali. Sotto il profilo degli interpreti, tocca il vertice con Enrico Caruso, ch’è stato il più grande cantante di tutti i tempi; gli si affiancano dei ragazzini come Beniamino Gigli, Tito Schipa, Mario Del Monaco». Non sarà troppo esigente? No: «Fuor del canto classico, grandissimi interpreti, dei quali il mio preferito è il raffinatissimo Gennaro Pasquariello, da Sergio Bruni a Mario Abbate ad Aurelio Fierro allo stesso Nino Taranto, l’hanno ancora onorata…»
MA GIGI D’ALESSIO!
Jatevenne! «A me pare», sostiene Isotta «che la distanza intercorrente fra Caruso e lui sia la stessa che passa tra Omero e quei dentisti o avvocati (spesso dai capelli tinti) che per egolatria pubblicano a proprie spese “poesie” (senza metro né rima, ovviamente) e le mettono nella sala d’attesa del loro studio»…