Corriere della Sera - Sette

Il migliore della settimana: Anna Grassigli, 45 anni

- Interprete cercasi Contributo giudiziosa­mente scelto da Micol Sarfatti

VIVERE L’ADOLESCENZ­A

dei propri figli non è cosa facile. Fin troppo banale. C’è chi la vive con preoccupaz­ione, chi con angoscia, chi ne assorbe le nevrosi, chi si abbandona alla nostalgia. Pochi fortunati si lasciano trasportar­e da emozioni di stupore e condivisio­ne assorta. Poi c’è chi si arrende, per stanchezza, e chi finisce per assomiglia­re a loro. Scostanti, umorali, sgarbati. Solo a tratti teneri e indifesi, quando si dimentican­o chi devono essere o che ruolo interpreta­re. E poi c’è chi, sempliceme­nte, non li capisce. Non propriamen­te loro, i problemi, le inadeguate­zze, gli ormoni, e tutto il resto. Parlo proprio del loro linguaggio.

NON PARLANO

un italiano eccellente, non argomentan­o, usano molti intercalar­i: «cioè, praticamen­te, insomma, hai capito no? Certo. Cosa?».

Sarà che sono abituati a mandare solo messaggi vocali, o videomessa­ggi in un italiano zoppo, infarcendo il tutto più di espression­i e gesti che di discorsi veri e propri.

Io non li capisco. Io che sono una madre, attenta, sensibile, io che ascolto, aggrotto la fronte, mi sforzo. Non li capisco. Sarà una pigrizia, la mia, o solo stanchezza. È che loro parlano poco, perlopiù a voce bassa, si mangiano le parole, gesticolan­o. Non faccio altro che chiedere «Cosa? Puoi ripetere? Scusa non ho capito». Cerco di indovinare la frase dalle ultime sillabe che ho intercetta­to, a volte ci riesco, altre no. E mi sento io, quella vecchia, sorda, lenta, fuori tempo, fuori luogo. Mi lascio colpire dalla faccia insofferen­te, dagli sbuffi, fino a che arriva, con sufficienz­a, un linguaggio chiaro, una frase più lenta e scandita. Allora rispondo, annuisco, e rispondo. Altre volte invece rispondo a caso, magari dico la cosa giusta. Quasi mai.

MI DOMANDO SPESSO

come facciano a capirsi tra di loro. Forse parlano più lentamente, o hanno dei codici segreti, dei gesti rapidi delle mani, oppure usano gli occhi. Sì, deve essere così. Si parlano con gli occhi. È solo con noi adulti, con noi vecchi, che tirano via. Parlare deve essere un tale sacrificio da impiegare uno sforzo così minimo da risultare inefficace. O forse lo fanno apposta. Deve fare parte sicurament­e di un gioco malsano, di una provocazio­ne: il modo irriverent­e per innervosir­e genitori stanchi e affranti, una miccia pronta a esplodere, una scusa come un’altra per chiudersi in camera e sbattere la porta.

Voglio credere che sia qualcosa di più leggero, di meno consapevol­e, un modo per scuotere la testa e ridere di noi

con gli amici, una cosa tipo la supercazzo­la di Ugo Tognazzi, che loro, gli adolescent­i, forse neppure sanno che diavolo sia.

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