Il migliore della settimana: Anna Grassigli, 45 anni
VIVERE L’ADOLESCENZA
dei propri figli non è cosa facile. Fin troppo banale. C’è chi la vive con preoccupazione, chi con angoscia, chi ne assorbe le nevrosi, chi si abbandona alla nostalgia. Pochi fortunati si lasciano trasportare da emozioni di stupore e condivisione assorta. Poi c’è chi si arrende, per stanchezza, e chi finisce per assomigliare a loro. Scostanti, umorali, sgarbati. Solo a tratti teneri e indifesi, quando si dimenticano chi devono essere o che ruolo interpretare. E poi c’è chi, semplicemente, non li capisce. Non propriamente loro, i problemi, le inadeguatezze, gli ormoni, e tutto il resto. Parlo proprio del loro linguaggio.
NON PARLANO
un italiano eccellente, non argomentano, usano molti intercalari: «cioè, praticamente, insomma, hai capito no? Certo. Cosa?».
Sarà che sono abituati a mandare solo messaggi vocali, o videomessaggi in un italiano zoppo, infarcendo il tutto più di espressioni e gesti che di discorsi veri e propri.
Io non li capisco. Io che sono una madre, attenta, sensibile, io che ascolto, aggrotto la fronte, mi sforzo. Non li capisco. Sarà una pigrizia, la mia, o solo stanchezza. È che loro parlano poco, perlopiù a voce bassa, si mangiano le parole, gesticolano. Non faccio altro che chiedere «Cosa? Puoi ripetere? Scusa non ho capito». Cerco di indovinare la frase dalle ultime sillabe che ho intercettato, a volte ci riesco, altre no. E mi sento io, quella vecchia, sorda, lenta, fuori tempo, fuori luogo. Mi lascio colpire dalla faccia insofferente, dagli sbuffi, fino a che arriva, con sufficienza, un linguaggio chiaro, una frase più lenta e scandita. Allora rispondo, annuisco, e rispondo. Altre volte invece rispondo a caso, magari dico la cosa giusta. Quasi mai.
MI DOMANDO SPESSO
come facciano a capirsi tra di loro. Forse parlano più lentamente, o hanno dei codici segreti, dei gesti rapidi delle mani, oppure usano gli occhi. Sì, deve essere così. Si parlano con gli occhi. È solo con noi adulti, con noi vecchi, che tirano via. Parlare deve essere un tale sacrificio da impiegare uno sforzo così minimo da risultare inefficace. O forse lo fanno apposta. Deve fare parte sicuramente di un gioco malsano, di una provocazione: il modo irriverente per innervosire genitori stanchi e affranti, una miccia pronta a esplodere, una scusa come un’altra per chiudersi in camera e sbattere la porta.
Voglio credere che sia qualcosa di più leggero, di meno consapevole, un modo per scuotere la testa e ridere di noi
con gli amici, una cosa tipo la supercazzola di Ugo Tognazzi, che loro, gli adolescenti, forse neppure sanno che diavolo sia.