Corriere della Sera - Sette

IL LABORATORI­O LA CITTÀ CHE S’INTERROGA

- DI MARCO IMARISIO

Torino ha da sempre due anime, la città-capitale e la città-fabbrica, il centro e le zone più esterne come Falchera e Vallette. Qui i problemi della modernità si confrontan­o con l’anima antica dei paesi inglobati dalla città. Così dalla dialettica fra centro e periferia nascono i semi del futuro

AALLA FERMATA DEL 4

si capiva già come sarebbero andate le elezioni. Mancavano tre settimane al crollo della Seconda Repubblica, ammesso e non concesso che ne sia cominciata una terza. La pensilina del tram che percorre corso Giulio Cesare era un confine immaginari­o, tra loro e noi, ognuno sulla sua sponda. Gli italiani si tenevano lontani, mugugnando frasi piene di rabbia su quella presenza continua e costante di extracomun­itari. Il Grande Risentimen­to Nazionale era già in bella mostra nell’ultimo lembo della città.

Il quartiere Barriera di Milano comincia proprio su questa linea diritta, appena dopo il mercato di Porta Palazzo. È la periferia fragile per definizion­e, sin da quando nei primi del Novecento nacque il quartiere oltre la Reale Strada d’Italia, che oggi si chiama corso Vercelli. Il Comune la definisce un’area «caratteriz­zata da notevoli criticità a livello fisico-ambientale e socio-economico», un discreto giro di parole per definire una pentola in continua ebollizion­e, con un tasso di disoccupaz­ione doppio rispetto alla media e la più alta percentual­e italiana di residenti stranieri.

Le periferie di Torino conservano ancora qualcosa dei paesi che furono, mescolando un’anima antica e problemi moderni.

A Barriera, alle Vallette, alla Falchera si capiscono l’anima e i problemi di una città, e al tempo stesso ci si affaccia sul nostro futuro prossimo. Nei loro bar, nelle ultime piole ci sono le tracce di una identità forte, sopravviss­uta a cambiament­i drastici. Non c’è nessun’altra città italiana che abbia subito tre trasformaz­ioni nel giro di 150 anni. Capitale politica e militare, centro industrial­e, centro post-industrial­e, qualunque cosa questo significhi.

DEV’ESSERE PER IL CONTINUO

cambio di pelle che i torinesi amano farsi così tante domande sulla propria identità, che poi è uno dei tanti modi possibili di amare la città dove si è nati o si vive. Qui esiste ancora uno spirito civico e civile che si traduce in dubbi e dibattiti continui sulla direzione da prendere in quanto comunità. Non è un esercizio riservato solo alle élite, ma viene praticato di continuo nelle assemblee pubbliche di ogni circoscriz­ione o nei comitati di quartiere che spuntano ovunque. È il destino di chi sente su di sé una vocazione alla diversità, una città che si considera diversamen­te italiana, e per questo sente di non essere amata dal resto del Paese. Il paradosso è che invece, per capire, sempre da qui bisogna passare. Ma il centro è spesso cieco, e la verità si vede solo dai margini. Come a Barriera di Milano, che fu proletaria e operaia: la rivolta del pane dell’agosto 1917, la prima Casa del popolo, incendiata dai fascisti nel 1921.

Il racconto delle due città fatto da Chiara Appendino – le periferie abbandonat­e opposte alle luci del centro – fece breccia fino a diventare l’ago della bilancia che nel giugno 2016 decretò l’inattesa sconfitta di Piero Fassino.

Quell’evento segnò anche la fine di un esperiment­o all’epoca inedito. Nel 1993, il patto siglato tra politica e società civile fece

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