È il capolavoro mancato di quel mago di Mamet
DRAMMATURGHI
(si dice ancora così?) come David Mamet non ce ne sono quasi più in circolazione. Gente capace di scrivere Glengarry Glen Ross, quasi una tragedia greca, con versamento non di sangue ma di denaro, ambientata nel mondo degli agenti immobiliari (la fecero al cinema, col titolo Americani, Al Pacino e Jack Lemmon). Oltre che drammaturgo, Mamet è uno sceneggiatore che scrive come scriverebbe un rasoio, se un rasoio avesse velleità cinematografiche (e il suo formidabile manuale di sceneggiatura si intitola I tre usi del coltello). Ha firmato film da storia del cinema:
Il postino suona sempre due volte, Gli Intoccabili, Hannibal e Il verdetto ,il mio preferito, con l’arringa finale da brividi dell’avvocato Paul Newman («Noi per lo più nella vita ci sentiamo smarriti...»). Mamet è stato anche regista in proprio e saggista. Mai però aveva scritto un romanzo. Lo ha fatto con Chicago, che è anche la sua città natale, la stessa di Al Capone, un personaggio verso il quale ha avuto da sempre (e non solo negli «Intoccabili», dove gli regalò la celebre battuta: «Tu sei solo chiacchiere e distintivo») un rapporto complesso.
Di Chicago molti hanno parlato bene in America (e dico testate quali Los Angeles Times, Village Voice, New York Times Book Review). C’è chi ha paragonato Mamet a scrittori come Updike, Mailer, Bellow, Roth (il dream team della romanzeria statunitense). E sono stati spesi anche i nomi (e i numi) di Salinger e di Hemingway, soprattutto per la maestria con cui Mamet scrive i dialoghi. Ed è vero, Mamet non scrive dialoghi, li scolpisce, come un rasoio scolpisce una basetta.
Chicago dovrebbe (vorrebbe) essere il romanzo della vita. È ambientato nel mondo dei giornali (sono cronisti e scrittori i due personaggi principali, Mike e Parlow) e c’è l’amaro cinismo di chi fa (faceva) quel mestiere. Quin-