Parlare scurrile o castrato? Ci salva Pontiggia
DUE, DA QUALCHE TEMPO,
sono i linguaggi della politica: il politicamente corretto, per disinnescare discriminazioni linguistiche, e il politicamente scorretto, che rifiuta divieti lessicali.
Il primo a volte eccede nell’ottimismo, come se per cambiare la realtà, correggerla, bastasse cambiare le parole. Eccesso che spesso si accompagna a una furia iconoclasta per cui si censurano opere e figure del passato non conformi ai valori del presente. Così il politicamente corretto diventa un’ideologia, come racconta Eugenio Capozzi in Politicamente corretto. Storia di un’ideologia (Marsilio, 2018). Si diventa castratori (penso a chi propone l’asterisco al posto della vocale: “Car* tutt*” invece di “Care tutte e cari tutti”).
Il secondo, il politicamente scorretto, era tollerabile, e persino incoraggiabile quando necessaria reazione alle castrazioni del politicamente corretto: ma ora che quella motivazione è caduta, alibi debole, sta degenerando in volgarità. Per gli scurrili, il rutto è un opinione. C’è chi lo riveste di cultura almanaccando insulti aulici (“Eunuco!”) e chi ripete come un bambino dell’asilo la frase del capo-banda (“Ruspa! Ruspa! Ruspa!”). Il giusto mezzo sembra spacciato: come si può non insultare l’intelligenza nostra e altrui con l’ipocrisia? E come non offendere la sensibilità e la dignità altrui? C’è una terza via tra essere linguisticamente castrati o scurrili?
UNA BUONA RISPOSTA
èin un libro di Giuseppe Pontiggia (1934-2003; nella foto a destra) che raccoglie sue conversazioni sullo scrivere, tenute nel 1994 su RadioDue (un’idea di Aldo Grasso): Dentro la sera (pubblicato da Belleville, 2016). Spiega perché è ipocrita un appellativo come “Signor imbianchino”, perché è meglio dire “non vedente” rispetto a “cieco” e perché è improprio, e offensivo, l’uso di parole che descrivono disabilità fisiche come insulti, da parte di chi non è mai stato toccato personalmente da certe esperienze. «Gli interessati lo sanno, bisogna dare un certo ascolto alle persone interessate, perché di solito sono quelle che subiscono sulla propria pelle le violenze che il linguaggio porta con sé».
Non significa dover chiedere il permesso, né poi poter imporre il modo giusto di esprimersi. Il modo giusto non c’è. Un buon metodo, però, sì. Dare ascolto, almeno una buona dose. È già qualcosa.