Per raccontare Freddie la cronaca è meglio del cinema
CARATTERISTICA PRECIPUA
dell’adolescenza (specie quella maschile) è la totale indisponibilità emotiva all’accettare che quello che sta succedendo ora, qui e adesso, abbia la minima importanza: è
la certezza fondativa che il bello deve ancora venire, che il bello probabilmente non è neanche mai arrivato perché non ne valeva la pena, perché non c’eravamo noi.
È l’ebbrezza di vivere al cospetto di un futuro che sembra completamente aperto, dove è per esempio impossibile pensare che i nostri sogni non si realizzeranno.
C’È UN’ECCEZIONE
a questa solipsistica visione del mondo, all’idea che il presente non è minimamente interessante quanto lo sarà il futuro, per quelli della generazione di chi oggi ha tra i quaranta e i cinquant’anni, ed è il pomeriggio del 13 luglio 1985. Quando
Live Aid, il concerto trasmesso in diretta da Londra e dagli Stati Uniti, ha ipnotizzato un pubblico gigantesco che non aveva mai visto niente di simile.
E, almeno nel caso dei Queen, non l’avrebbe più visto. Ho coetanei che hanno gusti diversissimi, che hanno fatto cose diversissime l’uno dall’altro nella vita e che erano, in quel 1985, diversissimi tra loro e da come sarebbero diventati poi. Però, se ricordi loro quel pomeriggio, ricordano (ricordiamo) tutti la stessa cosa: Freddie Mercury che arriva in canotta e comincia a dirigere il pubblico di Wembley come un direttore Freddie Mercury al Live Aid 1985. A lui Sky ha dedicato una maratona tv, mentre al cinema c’è il biopic Bohemian Rhapsody d’orchestra (o un grande dittatore, a seconda dei punti di riferimento). Bohemian Rhapsody, Radio Ga Ga, Hammer To Fall, Crazy Little Thing Called Love, We Will Rock You, We Are The Champions, Is This The World We Created. Meno di mezz’ora. Abbiamo pensato tutti: non vedrò mai più niente di simile. Mai. Trentatré anni e mezzo dopo: avevamo ragione.
È QUEL CHE PENSAVO
davanti alla maratona tv del 16 dicembre su Sky Arte (canale 120, 400 di Sky) tutta dedicata a Freddie Mercury e chiusa con il documentario Freddie Mercury – The Great Pretender diretto e prodotto dal regista inglese Rhys Thomas. Ora che nei cinema c’è il Freddie finto, interpretato da Rami Malek che non gli somiglia neanche, in un film che cambia senza complessi tanti fatti realmente avvenuti per rendere la storia più appetibile al pubblico (Bohemian Rhapsody, di Bryan Singer),
è salutare vedere il vero Freddie. Nella sua grandezza, nella sua vulnerabilità, nella sua crudeltà.
Interviste esclusive e di repertorio ad amici e artisti, da Bryan May a Roger Taylor ai manager John Reid e Jim Beach, all’assistente personale Peter Freestone. Freddie al Royal Ballet, Freddie con Montserrat Caballé, sovrano di Live Aid (dopo di lui salì sul palco David Bowie: l’unica volta che il Duca Bianco fu messo nell’angolo da un altro performer). Freddie che fallisce la carriera da solista. Freddie supereroe sul palco, sempre e comunque. Freddie che si ammala, si allontana dalle scene, muore. Il film-biografia di Singer si prende tante libertà ma a un certo punto decide di fare la cronaca, e
prende Malek e lo mette sul palco di un Wembley ricreato digitalmente con bravura che lascia esterrefatti,
le riprese con i droni che nel 1985 non esistevano e le immagini in 4K e il suono tanto cristallino da essere irreale (nel 1985 vedemmo Freddie col tubo catodico e l’antenna, registrato sul Vhs per chi l’aveva). Ricrea il Live Aid, integrale. Ricordandoci perché Freddie Mercury era, letteralmente, inimitabile. Anche in 4K sulla tv Led a 60 pollici con l’audio Surround.