Corriere della Sera - Sette

Il migliore della settimana: Mercedes Viola, 41 anni

- Ricordi di note Contributo giudiziosa­mente scelto da Micol Sarfatti

I PUZZLE

mi hanno sempre dato noia. Il lavoro solitario di mettere insieme e incastrare dei piccoli pezzi colorati in base a un disegno prestabili­to non mi piace. Tanta fatica, poco stupore.

Ho provato la stessa sensazione quando ho suonato per la prima volta in un’orchestra. Le mie parti mi sembravano brutte e incomprens­ibili. Non sono una musicista profession­ista. Castigo i tasti del piano con amore, ma senza vero talento. Arrivata alla mia prima prova, entro in teatro. Ho svestito a metà il pianoforte a coda e mi sono seduta in mezzo a suoni di viole, violini, flauti e clarinetti. La voce carismatic­a del maestro Damiano ha dato il via e siamo partiti. Per primi hanno suonato i violini, poi le viole, il pianoforte e per ultimi flauti e clarinetti.

SUONO PIANISSIMO:

qualcosa non mi torna. Sono in silenzio mentre gli altri suonano, ho ritmi quadrati mentre gli altri giocano. Chiedo permesso per alzarmi e guardare gli spartiti del Direttore – che in una pagina ha tutti gli strumenti, e Dio solo sa come fa a leggerla – mi i metto in piedi dietro di lui e guardo. Stavo suonando un altro brano, completame­nte diverso! Sono tornata al pianoforte ridendo dentro. Ho cambiato i fogli e iniziato a suonare la musica che suonavano tutti. E come per magia la mia parte, incomprens­ibile e brutta, prendeva vita e diventava bella. Suonate insieme, tutte le parti erano altro. Gli accordi mi facevano venir voglia di piangere: di allegria, di emozione e di quella tristezza dolce che spesso la musica ci regala. Volevo piangere di gratitudin­e per trovarmi in mezzo a bambini e ragazzi che suonavano, per condivider­e questo con le mie tre figlie.

Tutti a seguire il Maestro, a farci guidare per creare insieme una cosa più grande di noi, che non si può afferrare né toccare: solo sentire.

Mi sono commossa ricordando­mi della mia infanzia in Argentina, quando suonavamo tutti insieme dopo cena, nel salotto della casa di campagna di mia nonna, figlia di emigrati piemontesi. Era bellissimo essere lì, a lume di candela, in mezzo a un nulla sconfinato. Anche in quelle occasioni la musica ci travolgeva e ci faceva tremare di emozione.

ALCUNI DI NOI

suonavano male, altri benino, altri ancora malissimo. Uno era bravo per davvero. Mia nonna aveva insegnato a tutti, a prescinder­e dal talento, l’amore incondizio­nato per la musica. Ma quando c’era un lutto il pianoforte e la fisarmonic­a ammutoliva­no. Suonare era vietato. Oggi non rispettere­i questo divieto, perché la musica non mi pare gioia che offende il dolore, ma anima che si fa suono, accarezza le assenze, e vibra con loro in questo puzzle senza immagine da seguire, ma pieno di stupore, che è la vita.

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