PER RABONI, VILLAGGIO ERA UN GENIO. O FORSE NO
Non gli piaceva Pier Paolo Pasolini, almeno come poeta: «Lo strano destino di questo grande saggista, grande scrittore, grande intellettuale è stato quello d’essere un poeta in tutto, nella critica come nel giornalismo, nella filologia come nel cinema – in tutto, tranne che nella poesia». Non gli piaceva Baricco che paragonava ai «leggendari mobilieri brianzoli» con le loro imitazioni “in stile” di mobili francesi. Definiva «un colpo di genio» il Fantozzi («pavido, repellente, eroico») di Paolo Villaggio. Però poi accusò Villaggio di avere abusato «egoisticamente e brutalmente» della sua creatura (per dirla alla Frankenstein). Gli piaceva Simenon e, come Gide, lo considerava «il Balzac del nostro secolo». Soprattutto il Simenon poliziesco, quello di Maigret. Non gli piaceva l’ultimo Giorgio Gaber che accusava di «leghismo estetico» (a noi è toccato il leghismo inestetico).
Sto parlando, come la volta scorsa, dei giudizi di Giovanni Raboni (1932-2004), poeta e critico, ribattezzato negli anni Ottanta il Re Censore per la spietatezza dei suoi articoli giornalistici (ora raccolti in Meglio star zitti?, a cura di Luca Daino, Oscar Moderni).
L’antologia delle sue stroncature è irresistibile (ma ricordatevi che le stroncature, come i necrologi, sono i pezzi più facili da scrivere), ma a me piaceva un altro Raboni. Quello che una volta lesse che Gabriel García Márquez considerava Di là dal fiume e tra gli alberi il più bel libro di Hemingway. Rimase di stucco. Come? Quel romanzo «stanco e ripetitivo», con «quella cornice da rivista patinata, quella Venezia per turisti ricchi», il più bello di tutti? Poi Raboni rilesse Di là dal fiume e tra gli alberi e arrivò a questa conclusione: «García Márquez ha ragione». Perché in quel romanzo Hemingway racconta la sua decadenza, getta la sua maschera: «L’acclamato torero» si rivela alla fine un «clown dell’infelicità e della perdita».