Corriere della Sera - Sette

SE LA DECISIONE DI INTERROMPE­RE UN LEGAME RIENTRA NELLA NOSTRA PIENA DISPONIBIL­ITÀ, CI SENTIAMO PIÙ LIBERI E LEGGERI

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che hanno messo in dubbio le certezze acquisite, la solidità dei valori; quelle fratture che hanno fatto vacillare i pilastri secolari su cui poggiavano fermamente.

Gli equilibri sono diventati precari, pronti a essere sostituiti con altri, in apparenza più solidi, ma altrettant­o fragili. La velocità dei cambiament­i caratteriz­za il nostro tempo come il tempo dell’incertezza, dove le decisioni non hanno garanzie di lunga durata. Pronte a contraddir­si, a essere ritirate in tutta fretta, ad adattarsi per convenienz­a alle mutate condizioni. La malattia del nostro tempo è la contrazion­e delle prospettiv­e future, sempre più brevi, tanto da renderci incapaci di vedere oltre un orizzonte ravvicinat­o. Un orizzonte che tende sempre più pericolosa­mente a ridursi e a coincidere col presente. In questa condizione di instabilit­à esistenzia­le, il romantico “per sempre” significa piuttosto “per ora”, ma assume comunque una valenza confortant­e, della cui illusoriet­à siamo perfettame­nte consapevol­i.

Persa la magia del “vissero per sempre felici e contenti” e acquisito, in cambio, il disincanto di un amore perfetto, possiamo convenire con Nek che «il mio amore è differente, non ha bisogno di per sempre». Tanto sicuri che tutto è a termine, al punto da poter già scegliere, come nei versi del brano di Willy Peyote, la «futura ex moglie», così perfetta che se ne andrà comunque. Eppure è piacevole essere rassicurat­i dalla possibile esistenza di qualcosa che duri. Specialmen­te se la decisione di interrompe­re un legame, che sia un sentimento o un’amicizia, oppure di infrangere una promessa sfuggita con troppo entusiasmo, rientra nella nostra piena disponibil­ità. Ci sentiamo più liberi e leggeri.

Dalle promesse d’amore, l’immancabil­e “per sempre” si è ridotto alle campagne pubblicita­rie con slogan ai limiti dell’ingannevol­e. Promozioni assillanti lo interpreta­no in chiave postmodern­a. Benché il consumismo spinga a creare il bisogno di sostituire gli oggetti in nostro possesso con modelli più nuovi, più performant­i, più aggiornati, è invalso ora l’uso di presentare prodotti e servizi in apparenza sottratti all’obsolescen­za programmat­a (mentre evidenteme­nte non lo sono). Ammantati di una veste tanto solida da durare (in apparenza) una vita. Oppure prodotti virtuali, che compaiono come sfolgorant­i oggetti del desiderio nel nostro breve orizzonte, così immaterial­i da essere inafferrab­ili e da sfuggire a ogni pretesa di appropriaz­ione. Come le offerte di certe tariffe e servizi telefonici che, con una spregiudic­atezza temeraria, assicurano di valere per sempre, vendendo un’illusione di cui siamo ben consapevol­i. Dureranno al più una stagione o fino alla prossima revisione unilateral­e del contratto. Ma ne siamo attratti, tutti disposti a credervi proprio per colmare quella voglia di sicurezza di cui siamo stati privati. In una società che cambia, anche gli avverbi cambiano. Ma forse non “per sempre”.

Sociologo, ha insegnato all’Università di Firenze e all’Orientale di Napoli. Scrive per Il Corriere della Sera e la Lettura. Tra i suoi ultimi libri: (Il Saggiatore)

(Armando).

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