NEL BRACCIO DELLA MORTE
Trump ha deciso di ripristinare la “death penalty” a livello federale, imponendola a tutti gli Stati. Favorevole il 56%, anche se le ricerche dimostrano che tra i condannati ci sono sempre persone incolpevoli
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Venerdì 14 giugno un secondino
apre la cella di Charles Ray Finch nel Green Correctional Institution, a Maury, in North Carolina: «Vieni dai, sei libero». Il poliziotto lo porta fuori, in carrozzella. Charles, maglietta e pantaloni bianchi, occhiali scuri va incontro al sorriso della moglie, della figlia, dei nipoti. È un afroamericano di 81 anni; ne ha vissuti 43 nel braccio della morte, da innocente. Nel luglio del 1976 prove e testimonianze oculari, risultate poi manipolate dalla polizia, lo avevano inchiodato per l’omicidio di un negoziante. Nel drugstore furono trovati bossoli non compatibili con il fucile rinvenuto nella sua auto. Ma gli investigatori, la giuria e i giudici presero per buona la versione di un alcolista, turbato da gravi problemi mentali e Charles Ray Finch fu condannato a morte. La sentenza fu poi convertita in ergastolo. Il suo caso è stato riaperto solo nel gennaio del 2019, grazie all’insistenza dell’organizzazione “Innoncence Project of Florida”. Finch è il 166° condannato a morte risultato poi innocente, e quindi liberato, dal 1976 a oggi, cioè da quando la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che la pena capitale «non è contraria alla Costituzione».
L’ultima iniezione
Nel Paese la giustizia penale è amministrata su due dimensioni. Le leggi del 1988 e del 1994 disciplinano il ricorso alla pena di morte a livello federale, con un ambito ristretto a reati come reati come alto tradimento, attentati contro il presidente il suo staff, omicidi crudeli e di difficile attribuzione territoriale, crimini collegati al traffico di droga. L’ultima iniezione esecuzione risale al 2003: Louis Jones, stupratore e assassino di una giovane appena arruolata nell’esercito. La moratoria è stata interrotta il 25 luglio scorso dal ministro della Giustizia, William Barr che