«POTEVO AIUTARE CAMERON MA MI ARRESI. NON HO MAI SMESSO DI PENSARCI»
Nel 2004 fu eseguita la sua condanna a morte. Ma, subito dopo, ulteriori accertamenti dimostrarono che Cameron era del tutto innocente. Fu accusato di aver dato fuoco alla sua casa per uccidere i tre figli piccoli. Ma risultò che era stato un guasto dell’impianto elettrico a innescare l’incendio. Rimasi molto scosso da questa vicenda e anche per questo, in seguito, ho deciso di occuparmi a fondo di Kevin Cooper».
Un altro condannato a morte...
«Sì, è un afroamericano che attualmente si trova nel braccio della morte in una galera della California. Nel 1983 venne condannato per aver fatto irruzione in un’abitazione di Chino Hills, uccidendo quattro persone. Ci ho lavorato per un bel po’. E dopo un’inchiesta approfondita mi sono reso conto e ho scritto che lo Sceriffo della Contea di San Bernardino aveva un pregiudizio nei confronti di Cooper. Sono state riaperte le indagini. Sia repubblicani che democratici erano contrari a sottoporre l’imputato al test del Dna. A suo tempo, quando era procuratrice, anche Kamala Harris si oppose. Ma la debolezza delle prove usate per la condanna ha imposto la verifica del Dna. I risultati dovrebbero arrivare il prossimo settembre. Nel frattampo Kamala Harris (ora in corsa nelle primarie democratiche, ndr) ha cambiato idea e si è scusata».
Qual è la conclusione che trae dalle storie di Cameron e di Kevin, che le prigioni americane sono piene di innocenti?
«No, stiamo parlando di eccezioni. Su questo dobbiamo essere chiari. La stragrande maggioranza dei condannati a morte è effettivamente responsabile di crimini spaventosi. Il problema, però, è che queste eccezioni non dovrebbero esserci. Secondo diversi studi, il 4% delle sentenze infligge la massima punizione