Il film sulla strada di Kerouac
«Caro Marlon, vorrei chiederti di acquistare i diritti di Sulla Strada per farne un film. Già mi vedo le belle inquadrature che potrebbero essere fatte con la camera sul sedile anteriore della vettura, che mostra la strada, giorno e notte, che scorre davanti al parabrezza, mentre Sal e Dean chiacchierano fra loro».
Così, direttamente, da mito a mito, scriveva Jack Kerouac a Marlon Brando nel 1957: lui aveva appena pubblicato il romanzo che sarebbe diventato il manifesto di una generazione letteraria e non soltanto. Marlon aveva già un Oscar in tasca, quello per Fronte del porto, e stava chiacchierando da pari a pari a Tokyo dove girava Sayonara con lo scrittore Truman Capote per un’intervista che sarebbe diventata di culto. «Insieme cambieremo faccia al cinema mondiale, lo renderemo spontaneo, lo rifaremo daccapo», sognava nella lettera Jack, ma a quella lettera lo sciagurato Marlon non rispose mai e ci vollero altri 55 anni perché On the road, il capolavoro di Jack, oltre che opera di trasformazione e riferimento per innumeri generazioni a venire, sarebbe diventata anche film, grazie al regista Walter Salles, nel 2012.
Pazza e affascinante idea quella di Jack, ma forse è stato meglio così, perché se Jack fosse riuscito a fare anche l’attore, a esibire vicino ai bicipiti di Marlon, trasgressivi ma glamour, i suoi muscoli segnati da una vita dura da intellettuale maledetto che quando era lontano dalla macchina per scrivere faticava fra navi da carico e angiporti, la sua esistenza sarebbe cambiata troppo, e con gli agi del successo hollywoodiano avrebbe dovuto rinunciare a quelle continue sperimentazioni libere di sensazioni vitali che poi passavano direttamente e velocemente nei suoi libri. A scrivere Sulla Strada ci mise tre settimane,
pazzi quando parlano, pazzi per la capacità di non salvarsi, desiderosi di tutto, gli unici che non si annoiano o si arrendono ai luoghi comuni, ma anche bruciano, bruciano, bruciano come quelle favolose candele romane gialle che esplodono come ragni fra le stelle» così, in Sulla Strada, riassumeva la sua filosofia di vita. Pazzo ad honorem, Neal Cassady, multimestiere come lui e affamato di vita, che Jack incontrò nel 1946 e che ispirò il Dean del romanzo: «Lui ha scritto e magnificamente! Meglio di me. Neal è un tipo molto buffo, un vero californiano. Per me è l’uomo più intelligente che abbia mai conosciuto» ha raccontato anni dopo a Ted Berrigan in un’intervista per Paris Review. E poi Allen Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso con cui avviò il nucleo originario delle Beat Generation.
Per Jack, di famiglia e lingua franco canadese, contava il ritmo, il battito e il jazz con la sua libertà espressiva e il suo humour restava assoluta ispirazione letteraria: «È come un tenore che fa un respiro profondo e soffia una frase nel suo sassofono fino a quando non gli resta più fiato, e a quel punto, la sua frase, la sua affermazione è stata fatta... Ecco dunque come divido le mie frasi, come pause nel respiro della mente». Ma restava un battitore libero e odiava essere incasellato, anche nel movimento Beat: «Ferlinghetti, Ginsberg, socialisti convinti, vogliono che viviamo tutti in una specie di frenetico kibbutz, nella solidarietà e tutta quella roba là. Io ero un solitario» puntualizzò, sempre con Ted Berrigan.
Morì a 47 anni il 21 ottobre 1969, mangiato dalla sua vita assurda, contraddittoria, a tratti casalinga, bruciando fra le sue visioni, vinto dal suo fegato corroso dall’alcool. Quando venne in Italia invitato dall’editore Mondadori sconcertò la sua sponsor Fernanda Pivano e l’intera intellighenzia perché non si dichiarò contro la guerra in Vietnam e difese la moralità di alcuni soldati che aveva conosciuto.