Lo sguardo di Spinoza sulla realtà. O è sogno?
C’è un’ambizione che accomuna la maggior parte dei filosofi, quale che sia il loro orientamento. È quello che un pensatore contemporaneo, Thomas Nagel, ha chiamato «lo sguardo da nessun luogo (the view from nowhere)».
Gli antichi, che ancora credevano in un ordine divino delle cose, esprimevano la stessa idea parlando dello «sguardo dal punto di vista di Dio». Al crocevia di queste due tradizioni (è stato ateo o no? Gli studiosi si dividono ancora oggi) è Baruch Spinoza, con il suo «sguardo dal punto di vista dell’eternità» (sub specie aeternitatis, scriveva in latino). È il punto culminante dell’Ethica more geometrico demonstrata, una delle opere più audaci nella storia della filosofia, un tentativo appunto di comprendere la realtà per quello che essa è realmente, assolutamente, non come appare a noi, chiusi nei nostri pregiudizi e nelle nostre prospettive limitate.
Vista dalle vertiginose altezze della metafisica, la realtà appare in effetti diversa da quello che pensiamo. Guardiamo il mondo, le cose, noi stessi, e vediamo molteplicità e disordine, trasformazioni e decadenza. La nascita e la morte, il tempo che scorre e tutto cancella, l’irriducibile molteplicità di ciò che ci circonda. C’è qualcosa di straziante nella consapevolezza che tutto quello è destinato a cadere nel silenzio («o buio, buio, buio. Tutti vanno nel buio / nei vuoti spazi interstellari, il vuoto va nel vuoto», scriveva un premio Nobel, Thomas S. Eliot). L’esercizio della filosofia è prima di tutto l’esperienza dell’unità; la comprensione
Dimostrare l’esistenza o meno di Dio non è facile e non è neppure decisivo, ormai. Di certo, la comprensione della realtà a cui è giunto il filosofo è la stessa di Dio, se esiste: