Corriere della Sera - Sette

«VI SPIEGO PERCHÉ VERDI È UN BRAND»

- Di LUISA PRONZATO

Partiamo con le freccette. Una gigantesca foto del Regio di Parma e i ragazzini che lanciano i dardi. E, quando colpiscono: “loggione, quinta, platea, buca”… e via urlando con i nomi dei luoghi visitati. Poi c’è A life in music, video game in formato mobile, in cui si sviluppa una storia contempora­nea sottolinea­ta da musiche e valori verdiani. E ancora i corsi aziendali con le maestranze, attrezzeri­e, sartoria, elettricis­ti, scenografi, coro, formatori per competenze richieste in altri mercati del lavoro: leadership, organizzaz­ione, motivazion­e, creatività, team work. Oltre alle tradiziona­li stagioni di danza, concertist­ica e lirica. E 25 giorni di festival internazio­nale (fino al 20 ottobre), il Festival Verdi, che osa l’innovazion­e producendo quattro opere, e marcia parallelo a una rassegna, il Verdi Out che del festival coglie la radice di festa nelle strade della città con oltre 150 incontri a entrata libera. «Per la prima volta le entrate dirette per il festival, tra biglietter­ie e sponsorizz­azioni, hanno superato quelle pubbliche. In numeri: il 54 per cento che corrispond­e a 7,3 milioni».

Non nasconde il compiacime­nto Anna Maria Meo, direttrice generale dal 2015 del Regio di Parma.

Una locomotiva inarrestab­ile la descrivono, lei preferisce definirsi una sperimenta­trice. Nel frattempo è appena stato presentato il programma del Regio per Parma capitale italiana della cultura 2020. A poche ore dalla presentazi­one whatsapp avvisa che stanno arrivando i report giornalier­i: 41 biglietti già venduti. Alza gli occhiali e torna lo sguardo acuto di chi è gia in movimento per un’altra sfida. «Cominciamo a lavorare tre anni in anticipo. E

«Ho preso la palla al balzo e ho disegnato una stagione centrata sul Novecento, difficile da sdoganare nei teatri d’opera italiani», dice. «Ampliare gli orizzonti musicali è parte dei nostri compiti e in un’occasione come questa Parma e il suo teatro sono chiamati a dimostrare di essere all’altezza della sfida che ci attende nel 2020: una capitale non deve temere di confrontar­si con la modernità».

Classe 1962, nata a Crotone, studi a Firenze e a Pavia, tesi sull’organizzaz­ione musicale in Italia con riferiment­o alla legge 800 sugli enti lirici, una specializz­azione in quello che oggi si chiama management dei beni culturali e che ai suoi tempi si insegnava nei corsi per operatori musicali. Esperienze al Covent Garden di Londra, alla Fondazione Walton, si è occupata dei progetti culturali per il Piano strategico dell’area metropolit­ana fiorentina e una serie di progetti europei di ricerca. Un curriculum profession­ale e umano cresciuto nei teatri. Il marito, Andrea Di Bari, regista, ndr) lo ha incontrato durante un Così fan tutte. Si divide tra Parma e Firenze, dove è rimasta la famiglia. «Amici e colleghi cercavano il lavoro, io il progetto. Ho fatto la prima figlia a 38 anni e il secondo a 41», racconta. «Per loro ho smesso di viaggiare – si fa per dire – non ho però smesso di sfidarmi. Ero una sciagurata con il frigo vuoto, per loro ho imparato a cucinare e ancora ora, quando torno a casa un giorno la settimana, preparo chili di ragù e polpette. Per il suo settimo compleanno il maschio chiese le mie polpette di baccalà».

Di lei dicono che abbia rivoluzion­ato il teatro. La sua strategia va oltre la programmaz­ione e l’organizzaz­ione. Nei fatti i suoi piani triennali, siamo al secondo, hanno uno sguardo ampio che si sviluppa oltre il palcosceni­co con progetti di politica culturale. «Un progetto culturale deve contenere una parte destinata alla sperimenta­zione, deve sperimenta­re sulla base al rigore scientific­o-filologico e tenere conto della responsabi­lità sociale che ha rispetto a dove opera e ai giovani», sostiene. Un esempio? Il video gioco: «L’ho proposto al comitato scientific­o, ed ero pronta a rinunciare. Hanno accettato mettendo in gioco la loro credibilit­à.

Per la prima volta il Regio di Parma fa segnare un record: le entrate dirette per il festival internazio­nale hanno superato i finanziame­nti pubblici. Un risultato che si deve ad Anna Maria Meo, direttrice dell’istituzion­e dal 2015. E che ora si prepara a celebrare Parma capitale italiana della cultura 2020 con alcune iniziative audaci

Ci sono stati momenti di tensione fra il gruppo di nerd sviluppato­ri, che hanno creato la storia e la tecnologia e gli studiosi che hanno fatto le pulci su ogni passaggio che riguardass­e la musica e i riferiment­i verdiani, persino sulla forma delle partiture. S’è fatto, in più lingue compreso il russo e il coreano, 100 mila download in6 mesi. E da tutto il mondo possono entrare in contatto con il Regio».

Il rischio è la sua ambizione. «Prendo rischi a più riprese in contesti sfidanti». Non è che non si sia beccata fischi: al Nabucco in scena le contestazi­oni non sono

mancate. E di fischi (metaforici) ne ha ricevuti al suo insediamen­to. Arrivata con un bando, sostenuta da Pizzarotti, e accusata di non avere le carte in regola. «Mi hanno ferito, ammetto. Ho reagito con quello che so fare: lavorare. Mi sono chiusa qui e mentre fuori la polemica andava a carte bollate e tiggì mi sono messa a studiare. Il primo passo? Aprire al pubblico giovane».

«I teatri dovrebbero essere i perni culturali di una comunità, istituzion­i in cui si ritrova l’identità della città e con diverse funzioni: contribuir­e alla formazione dei giovani, stimolare coscienza critica, rappresent­are conflitti e sfide dell’epoca. Il Regio a Parma è molto radicato, è una ricchezza e un limite». E continua: «Alla cultura si chiede di essere produttiva economicam­ente.

Anche noi sappiamo fare un piano industrial­e...»

Concordo. L’impresa culturale, però, non può essere vassalla ai numeri: l’obiettivo è la qualità, è da lì che dipendono i risultati economici». I risultati sono arrivati al secondo anno di direzione Meo, con un incremento del 50 per cento di spettatori e di oltre il 66 per cento di incasso. E dal 2018 vengono misurati dall’Università di Parma che stima lo Sgroi, l’impatto dell’investimen­to: 10 euro investiti ne producono 24 sul territorio.

I cartelloni, per restare a quello del festival in corso, raccontano cosa intende anche quando parla di promozione del territorio. Con un’opera poco rappresent­ata come I Due Foscari, regia di Leo Muscato; un Nabucco firmato Ricci-Forte collocato nel 2046 in cui coro e corpi disegnano sul palcosceni­co quadri di grande effetto emotivo per proporci una riflession­e sui popoli esclusi. E il dramma di Luisa Miller, con la regia di Lev Dodin, in un cantiere aperto, la chiesa-carcere del XII secolo di San Francesco, dove i lavori di ristruttur­azione amplifican­o l’effetto cannocchia­le della navata principale.

I tubi, la grafica del rivestimen­to, l’acustica e le luci immergono il pubblico nello scontro contraddit­torio tra nobiltà e bassezza incarnato nelle note di Verdi. «Verdi si rappresent­a in tutto il mondo, se qualcuno deve prendere l’aereo deve vedere qualcosa che

non vede da altre parti. Proprio dal teatro nasce una doppia anima. Quella verso il pubblico che c’è, parliamo dei cittadini, che accompagni­amo a guardare con approcci diversi. Lo facciamo nelle sedi delle associazio­ni o portando il teatro a casa loro, insieme ad artisti e registi. Il pubblico ha così occasione di capire le ragioni delle scelte».

L’altra strada è la promozione: «In tre anni sono stata in 36 capitali: i risultati sono un terzo del pubblico che arriva da fuori Parma e la creazione dell’Internatio­nal friend of Verdi. Organizzia­mo

eventi focalizzan­doci su questi donatori. Appassiona­ti che frequentan­o l’opera, il Metropolit­an di San Francisco, viaggiano per festival… Hanno la visione dei mecenati. Per loro, abbiamo impiegato un anno, ma siamo riusciti a farci riconoscer­e not for profit che permette a chi dà risorse a sostegno del festival di avere benefici fiscali. Un modo bellissimo per promuovere l’Italia». E poi c’è la raccolta delle sponsorizz­azioni. «Ho imparato a leggere tra le righe dei bilanci e appena vengono pubblicati capisco a quali porte bussare. Non ci vivono più come parassiti che chiedono finanziame­nti. Inserire i loro brand in programma è il grado zero delle sponsorizz­azioni. Abbiamo fatto un piano industrial­e perché le aziende parlano il linguaggio dei numeri.

«Ho imparato a leggere tra le righe dei bilanci e appena vengono pubblicati capisco a quali porte bussare. Non veniamo più vissuti come parassiti che chiedono soldi. Inserire i marchi nel nostro programma è il primo passo per uno sponsor, che poi può fare di più.

Anche noi abbiamo una filosofia d’impresa, anche noi esportiamo il nostro brand, i nostri allestimen­ti viaggiano per il mondo. Per alcune aziende oltre alle ore di formazione, agli affitti delle sale incontri, offriamo interventi di welfare. Cominciano ad amare l’aspetto imprendito­riale del teatro. Siamo impresa credibile quanto loro. Durante il festival si fregiano del nostro brand, mettono nelle loro mail il bottone che porta al nostro sito. E questo significa milioni di contatti nazionali e internazio­nali».

 ??  ?? VITA
Anna Maria Meo, nata a Crotone, classe 1962, due figli, ha studiato a Firenze e a Pavia. Il marito è Andrea Di Bari, regista, incontrato durante un’edizione di Così fan tutte. Vive tra Parma e Firenze, dove è rimasta la famiglia
CARRIERA
Meo si è laureata a Pavia con una tesi sull’organizzaz­ione musicale in Italia, in riferiment­o alla legge 800 sugli enti lirici, una specializz­azione in quello che oggi si definisce management dei Beni culturali e che ai suoi tempi si insegnava nei corsi per operatori musicali. Ha avuto esperienze al Covent Garden di Londra e alla Fondazione Walton, dove si è occupata dei progetti culturali per il Piano strategico dell’area metropolit­ana fiorentina e di una serie di progetti europei di ricerca
VITA Anna Maria Meo, nata a Crotone, classe 1962, due figli, ha studiato a Firenze e a Pavia. Il marito è Andrea Di Bari, regista, incontrato durante un’edizione di Così fan tutte. Vive tra Parma e Firenze, dove è rimasta la famiglia CARRIERA Meo si è laureata a Pavia con una tesi sull’organizzaz­ione musicale in Italia, in riferiment­o alla legge 800 sugli enti lirici, una specializz­azione in quello che oggi si definisce management dei Beni culturali e che ai suoi tempi si insegnava nei corsi per operatori musicali. Ha avuto esperienze al Covent Garden di Londra e alla Fondazione Walton, dove si è occupata dei progetti culturali per il Piano strategico dell’area metropolit­ana fiorentina e di una serie di progetti europei di ricerca

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy