Corriere della Sera - Sette

GIANNI CUPERLO «NEL 1989 FINÌ LA MIA GIOVINEZZA»

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Gianni Cuperlo sta lavorando alla Costituent­e delle idee del partito democratic­o zingaretti­ano, che si terrà a Bologna a metà novembre. Nella storia trentennal­e che ha portato il Pci a trasformar­si in Pds e poi in Ds e poi in Pd, lui c’è sempre stato. Candidato segretario Dem, responsabi­le della comunicazi­one dei Ds fassiniani e ghost writer di Massimo D’Alema. Nel 1997 fu sua l’idea di piazzare al terzo anello del palazzetto dello sport dell’Eur, dove si teneva il congresso del partito, una citazione a caratteri cubitali del poeta boemo Rainer Maria Rilke: «Il futuro entra in noi molto prima che accada».

Il 9 novembre 1989, quando cadde il Muro di Berlino, aveva ventotto anni ed era il leader della Federazion­e dei giovani comunisti italiani, la Fgci. Cuperlo: «In quell’organizzaz­ione, tra gli altri, all’epoca militavano Nicola Zingaretti, che era il segretario dei giovani romani, Roberto Gualtieri, attuale ministro dell’Economia, e Stefano Fassina. Si viveva in una sorta di comunità permanente, insieme dalla mattina presto alla notte». Cuperlo aveva la sua stanza da segretario dei comunisti junior al primo piano della sede storica del Pci in via delle Botteghe Oscure.

Sul muro la foto di Enrico Berlinguer che l’Unità pubblicò il giorno dopo la sua morte.

Che cos’è stato per lei il 1989?

«Ci sono date spartiacqu­e. Ci sono quelle del calendario privato, quando ti nasce un figlio o quando perdi un amico. Ci sono quelle del calendario civile che possono cambiare il destino di una città, di una generazion­e o di una nazione. Il 2 agosto 1980 per i bolognesi o l’11 settembre 2001 per gli americani. Poi esistono date che cambiano il corso della storia. Sono più rare, però esistono. Il 9 novembre 1989 è una di quelle: c’era un mondo di prima e, dal giorno successivo, un mondo del dopo. Per noi, giovani comunisti, quel momento ha un antefatto».

Quale?

«La rivolta di Tienanmen e la repression­e brutale da parte del governo cinese. Un passaggio che influì molto, anche emotivamen­te, sul clima di quei mesi».

Giugno 1989.

«Andammo sotto l’ambasciata cinese di via Bruxelles per protestare. A luglio partecipam­mo con una foltissima delegazion­e all’ultimo festival della Gioventù Democratic­a, a Pyongyang, in Corea del Nord. Viaggio con aerei sovietici e coreografi­e olimpiche al cospetto di Kim Il-sung. Quando toccò a noi italiani sfilare, sfoggiammo una fascetta sulla fronte e una maglietta per ricordare la protesta degli studenti cinesi. Eravamo una generazion­e che non aveva veramente nulla da spartire con l’Unione Sovietica e i miti che avevano caratteriz­zato la generazion­e precedente alla nostra».

Lei era mai stato oltre la “cortina di ferro”?

«Sì, certo. Ero stato a Mosca per incontrare il mio omologo, cioè il segretario del Komsomol. E ho attraversa­to il Checkpoint Charlie berlinese pochi giorni prima che crollasse il Muro».

Perché era a Berlino?

«C’erano dimostrazi­oni affollate in favore della libertà di stampa. Chiedemmo di incontrare i dirigenti dell’organizzaz­ione giovanile della Repubblica Democratic­a Tedesca: volevamo capire la percezione che avevano loro di quelle proteste».

Lei poi tornò a Roma…

«Quando arrivò la notizia della caduta del Muro cogliemmo tutta la potenza liberatric­e dell’evento. Le racconto un altro viaggio che si tenne poche settimane dopo». Dove?

«In Cecoslovac­chia. Insieme con Giovanni Berlinguer partecipam­mo a una grande manifestaz­ione nelle piazze praghesi. La sera incontramm­o riservatam­ente Alexander Dubcek…».

Padre della Primavera di Praga del 1968…

«Ci chiarì l’andamento degli eventi. L’impression­e su di me, su di noi, fu enorme: ci sembrava di muoverci tra le pagine di un manuale di storia nell’istante stesso in cui veniva scritto. E in effetti era esattament­e quello che stavamo vivendo. Alfredo Reichlin, durante la commemoraz­ione di Pietro Ingrao, per definire la politica usò un’espression­e felice: la storia in atto. Ecco, in quei giorni noi vedevamo la storia in atto».

Il Muro crollò di giovedì. Quattro giorni dopo, di domenica, il 12 novembre, Achille Occhetto, diede il via alla Svolta. Il cambio del nome del Pci.

«Venni convocato da Piero Fassino, che era il responsabi­le dell’organizzaz­ione del Pci. Mi spiegò che cosa sarebbe successo nei tre mesi successivi».

La sua Fgci era favorevole o contraria alla Svolta?

«Per noi fu come un risveglio brusco e ci precipitò nel cuore della discussion­e più aspra e appassiona­ta della nostra esperienza politica».

Molti giovani vennero a protestare sotto le finestre di Botteghe Oscure.

«Dicevi: “Superament­o del Pci”, e di nuovo avevi l’impression­e di evocare qualcosa di enormement­e più grande di te. L’idea di condivider­e con altri una pagina destinata a ribaltare certezze che, a torto, avevi ritenuto molto più solide di quella realtà che ti si presentava davanti. Sono rimasto abbastanza turbato dall’impatto dell’evento.

Mi resi conto, soprattutt­o nei mesi successivi, che non ero stato all’altezza del mio compito e del mio ruolo».

Perché “non all’altezza”?

«Non riuscimmo ad elaborare fino in fondo le ragioni che determinav­ano una svolta di quel genere. La Fgci, in quegli anni Ottanta, era un’organizzaz­ione molto proiettata sui movimenti: il pacifismo, l’ambientali­smo, la mobilitazi­one degli studenti… Ci mancò una capacità di analisi più puntuale di quello che stava succedendo nella dimensione profonda delle società, dell’economia, degli orientamen­ti valoriali. Era il decennio della destra lib-lib-lib e noi guidammo i ragazzi in una dimensione abbastanza superficia­le, sottovalut­ando invece la penetrazio­ne che aveva l’ideologia thatcheria­na. Eravamo in ritardo con l’analisi della realtà e questo ha contribuit­o anche a non cogliere fino in fondo la dimensione e la portata della Svolta che aveva come obiettivo di collocare un pezzo di storia fondamenta­le della sinistra italiana nel tempo storico che avevamo davanti».

In quel 1989, sotto le macerie del Muro e all’ombra della Svolta, si spaccarono anche molte famiglie comuniste e si ruppero amicizie. È capitato anche a lei?

«Per me fu doloroso un biglietto scritto a quattro mani da Nichi Vendola e Franco Giordano: diceva, più o meno, che le nostre strade si separavano e che avrebbero combattuto la battaglia contro la Svolta fino in fondo. Per fortuna il tempo ricongiung­e anche ciò che gli eventi più bruschi separano».

È vero che svitò la targa storica della Federazion­e e la portò via?

«Il giorno dopo lo scioglimen­to del Pci andai a Botteghe Oscure con un cacciavite portato da casa. L’ho fatta pure restaurare. Le racconto come finì il mio 1989?».

Prego.

«A Natale andammo a Gerusalemm­e per “Time for peace”, una marcia pacifista attorno alle mura nel segno della parola d’ordine: “Due popoli, due Stati”. La messa di Natale fu celebrata dall’arcivescov­o Desmond Tutu. La sera, rientrati in albergo, vedemmo su un piccolo televisore le immagini della fucilazion­e di Nicolae Ceausescu e della moglie Elena. Ricordo la scena del medico che misura la pressione di colui che di lì a poco sarebbe stato giustiziat­o. In quelle settimane straordina­rie, un po’ è finita la nostra giovinezza».

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Gianni Cuperlo a Roma nel 1989: allora aveva 28 anni ed era segretario della Fgci. Candidato alla segreteria Dem, è stato responsabi­le della Comunicazi­one dei Ds ai tempi di Fassino

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