Il liceo classico (di periferia) è un sogno di riscatto sociale
Ogni tanto vengo a sapere di un altro liceo classico che scompare. È una lenta, silenziosa moria, simile a quella delle lucciole compiante da Pasolini. Non riguarda licei famosi nel cuore delle grandi città, bensì edifici squadrati dall’apparenza anonima, dislocati in periferia o in provincia, come il Carducci in cui mi sono diplomata, a Piombino.
Chiuso per mancanza di iscritti. A cui non ho fatto in tempo a dire grazie. Quella di frequentare il classico fu una decisione sofferta. Perché i ragazzi più carini delle medie si dirigevano inesorabilmente all’ITI o allo scientifico. Perché leggenda voleva che si morisse di studio, là dentro. Principalmente: avevo paura di non farcela. Era il 1998 però, e tutti intorno a me non si stancavano d’incoraggiarmi: «Avrai un futuro, grazie a quella scuola». «Imparerai a pensare con la tua testa, che è la cosa più importante». A parlare così erano amici e parenti con occupazioni normali: in ufficio, in fabbrica. Ma il classico aveva questo significato, all’epoca, diffuso in ogni quartiere: il riscatto sociale.
Oggi sono trascorsi vent’anni e mi chiedo cosa sia successo. Quando un classico muore, mi capita di raccogliere reazioni di sollievo, commenti del tipo: «Sono solo pezzi di carta, quei diplomi. A che servono il greco e il latino? Mica a trovare lavoro». Su questo punto concordo: Sofocle funziona meglio a inventarne uno nuovo, di lavoro; incita a non ripetere gli errori dei padri, a opporsi al destino. Suggerimento prezioso, specialmente se sei nato in svantaggio.
Nella mia classe non sedevano rampolli di nobile famiglia con biblioteche in casa, ma ragazzine come me, che navigavano in solitaria e in sofferenza per capirci qualcosa del mondo in cui abitavano, azzardando, da quel margine decentrato, un desiderio diverso. Ricordo certi sabati d’inverno che non finivano mai, facevo su e giù in motorino fra Piazza Bovio e Salivoli, a bruciare a vuoto benzina. Avevo 16 anni e tutta quella noia poteva diventare una voragine di cinismo in cui annegare ogni ambizione. Però qualcuno mi disse che valeva la pena leggere un romanzo; qualcun altro mi obbligò a tradurre Seneca; altri ancora portarono il giornale in aula e invitarono noi studenti a discutere le notizie. E così, piano piano, ho cominciato non solo a pensare, ma a sognare con la mia testa. Che dovrebbe essere non un privilegio, specialmente in periferia e in provincia, ma un diritto.
Quando la parola cultura, e succede sempre più spesso, viene usata come sinonimo di spocchia o vanità, mi arrabbio. Quando viene additata come muro, anziché come varco, tra le classi sociali che purtroppo resistono, mi suona come il peggiore dei trabocchetti. Sarò sentimentale: il Rocci era un dizionario di greco odioso, autorevole ma decrepito già allora. I verbi erano scritti talmente piccoli che ti veniva male agli occhi. Era un mattone pesante 3 chili e io avrei voluto gettarlo dalla finestra ogni pomeriggio di compiti. Però, gli devo l’insegnamento più importante: la fatica di cambiare.
NELLA MIA CLASSE NON SEDEVANO RAMPOLLI CON BIBLIOTECHE IN CASA, MA RAGAZZINE CHE NAVIGAVANO E SOFFRIVANO IN SOLITARIA