PERCHÉ BABY YODA NON VALE UNA LAVATRICE
Anche a chi come me ha superato la pur considerevole età media degli italiani, è appena il caso di ricordare chi sia Baby Yoda. È per me il simbolo del 2019 non solo perché ci è nato, ma perché è la creatura che rappresenta meglio di qualunque altra il tempo che stiamo vivendo. Il suo nome ufficiale è «The Child», ha due grandi orecchie a punta, due dolci occhi neri che occupano metà del volto e un ampio saio sotto il quale uno si immagina un pannolino.
Baby Yoda è una creatura della Walt Disney ideata per la serie tivù The Mandalorian, la cui prima stagione si è appena conclusa. Il solo essere della sua specie è un altro alieno di nome Yoda (nessuna parentela) la cui carriera è legata a Star Wars. Baby Yoda invece ha straripato ovunque: la Rete è piena di meme ispirati alla sua strana figura e lui stesso si sta allargando in tutti i canali del marketing.
In perfetta coerenza con la natura dell’epoca, Baby Yoda è un ibrido. È frutto della creatività umana perché un giorno del 2017 due artisti americani del cinema e della tivù, Jon Favreau e Dave Filoni, si misero a immaginarlo e disegnarlo. Ma è anche una creatura delle macchine, perché buona parte delle sue espressioni che ci inteneriscono è il prodotto di una tecnologia chiamata Cgi, «computer-generated imagery». Wikipedia informa che Baby Yoda ad ogni istante è controllato da due tecnici del software: uno si occupa dei movimenti degli occhi e della bocca, l’altro del resto del viso. Decenni di progresso tecnologico confluiscono nel far sbattere le palpebre di Baby Yoda in maniera struggente. La trama di The Mandalorian sarà povera e prevedibile, ma quell’alieno bambino non ha prezzo.