LA VILLETTA DEGLI ORRORI
In queste stanze alla periferia di Brescia, 14 anni fa un uomo uccise e fece a pezzi gli zii. Dopo essere stata affidata allo Stato, la casa è stata acquistata da un geometra che ora intende ristrutturarla e venderla
L’avevano chiamata “casa degli orrori”, come succede ogni volta che un efferato delitto viene consumato fra le mura domestiche. Ma a Brescia, nella villetta a due piani di via Ugolini numero 1315, quartiere residenziale semiperiferico della città, la violenza, la brutalità, il sangue sparso nel garage-mattatoio dove le due vittime furono uccise, fatte a pezzi e buttate nei sacchi dell’immondizia – l’assassino si premurò di separare le teste dagli altri resti dei corpi occultati – furono tali da richiamare “alla lettera” quell’appellativo ricorrente nella cronaca nera. Era il 30 luglio del 2005 quando Guglielmo Gatti, 41 anni, studente di lungo corso di Ingegneria al Politecnico di Milano, orfano, uccise a mazzate gli zii Aldo Donegani, 77 anni, e Luisa De Leo, 61, coppia estroversa che abitava al piano rialzato della villetta giallo-marrone. Lui, schivo e solitario, stava al piano di sopra. Secondo i cronisti che seguirono il caso, il duplice omicidio di Brescia è di quelli che non si dimenticano. Basti citare il ritrovamento dei cadaveri, una quindicina di giorni dopo il delitto: parti delle membra erano chiuse nei sacchi scaraventati in un dirupo del passo del Vivione. Nel dettaglio, in uno degli involucri c’erano anche alcune confezioni di sedano gettate per sbaglio (lo scontrino era rimasto nella camera da letto di Guglielmo). Le teste dei due anziani, invece, vengono ritrovate successivamente in un bosco di Provaglio d’Iseo da una coppia di cercatori di funghi. Fatto sta che l’iter giudiziario, cominciato con l’arresto di Guglielmo Gatti (lui si è sempre proclamato innocente, nonostante le prove schiaccianti), procede nei tre gradi di giudizio e si chiude in Cassazione il 12 febbraio del 2009 con la condanna definitiva all’ergastolo. Il movente del duplice omicidio? Mistero.
All’asta
Vista dall’esterno, quattordici anni dopo, la “casa degli orrori”, a parte l’inevitabile usura del tempo, le erbacce di quello che all’epoca era il giardinetto, appare più o meno com’era quando le telecamere e i giornalisti l’assediavano, facendo congetture sul colpevole e sulla scena del delitto. Eppure è proprio l’abitazione di Guglielmo
Gatti, venduta nel 2016 all’asta con il garage annesso, dopo vari tentativi andati a vuoto, a rinnovare la memoria della tragedia. Le scarne notizie sull’acquisto dell’immobile raccontavano di un privato che ha sborsato 70.000 euro per una unità abitativa. L’appartamento dei Donegani, infatti, essendo il nipote indegno di ricevere l’eredità, era passato allo Stato. Non difficile, però, da acquisire annettendolo all’altra parte della villetta. Fatto sta che ora, attivate alcune ricerche, arriviamo al nome dell’ardito compratore e quindi lo rintracciamo. E’ un geometra bresciano che, a dispetto di ogni pregiudizio (chi mai avrà il coraggio di abitare dove due persone sono state fatte a pezzi?) , ha deciso di investire nell’operazione immobiliare. Prima di cercarlo al telefono, consultando l’archivio online, ci imbattiamo nella descrizione del box fatta ai cronisti dai carabinieri della Scientifica di Brescia e dai Ris di Parma, impegnati nella ricerca di tracce ematiche. «Allo spruzzo del luminol, il garage-mattatoio riluce come un luna park tanto era stato il sangue sparso. Ripulito con l’ammonica, viene comunque evidenziato in ogni angolo dal reagente chimico.
alle udienze. Malauguratamente è morto in un incidente stradale». La vita in carcere di Guglielmo Gatti è quella che ti aspetti da un tipo come lui. A Opera, l’unica richiesta avanzata alla Direzione dell’Istituto di reclusione è stata quella di avere una cella singola. Le letture – testi scientifici ma anche classici di filosofia e storia – sono la sua compagnia. Quanto alle “relazioni sociali” capita che Gatti si presti come “portantino”, addetto a raccogliere le richieste di altri detenuti, oppure si dedichi all’attività di bibliotecario.
I parenti
Inoltre, strano ma vero, non è motivato ad avere contatti esterni. Nel corso degli anni, qualche anziano parente andava a fargli visita. Ebbene, a un certo punto gli incontri si sono interrotti per suo volere, con un discorso chiaro: «È l’ultima volta che vi vedo, non venite qui, non disturbatevi. È solo un disagio per voi stare in un ambiente come questo. Se volete, possiamo scriverci». Del resto, anche con il difensore l’atteggiamento è lo stesso: «Non si disturbi, se necessito di qualcosa glielo faccio sapere». L’avvocato Broli, infatti, conferma di non avere contatti con il suo cliente da qualche anno. Al netto dei dinieghi dell’ergastolano, c’è da chiedere quali altre piste sarebbero state utili per tentare la revisione del processo. «Fin dall’inizio c’erano due elementi da considerare, ignorati. L’ambiente sessualmente promiscuo frequentato dagli zii di Gatti e una traccia che portava al denaro» risponde il legale «Dopo la condanna, io stesso ho trovato una pista di cui non posso rivelare i dettagli che avrebbe potuto far valutare i fatti delittuosi in una luce diversa». Se Gatti avesse voluto…
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In Italia più di 700mila persone credono che l’Olocausto non sia mai esistito. Per loro lo sterminio di sei milioni di ebrei è un falso, pura invenzione. Una fantasia nera. Qualcuno potrebbe liquidarli come uno sparuto gruppo di folli, ma il numero di coloro che negano una delle più grandi tragedie della Storia dovrebbe essere pari a zero. Il dato emerge da uno studio sull’antisemitismo in Italia commissionato dall’Osservatorio Solomon a Euromedia Research di Alessandra Ghisleri. «La ricerca, condotta su un campione di 1.000 persone dai 18 anni in su, nasce con un obiettivo: inquadrare il fenomeno e colmare un vuoto normativo», spiega l’avvocato Barbara Pontecorvo, presidente di Solomon. Nel nostro Paese l’antisemitismo non è radicato come altrove in Europa, ad esempio Francia e Polonia. Da poco la professoressa Milena Santerini è stata nominata del presidente del Consiglio Conte Coordinatore nazionale per la lotta all’antisemitismo. Ma le cifre del sondaggio fanno riflettere. Per l’11,6% degli intervistati gli ebrei hanno troppo potere nella finanza internazionale, il 10,7% ritiene che si preoccupino solo della loro comunità, l’8,4% che si credano superiori agli altri. C’è confusione anche sulla percezione del numero effettivo degli ebrei italiani: uno ogni tre abitanti per il 33,6% del campione, lo 0,06% nella realtà, poco più di 23mila. Circa 13mila appartengono alla comunità di Roma, 6mila a quella di Milano, gli altri si dividono tra piccole e medie comunità, tra queste Torino, Bologna, Livorno e Napoli, unica del Sud. Abbiamo commentato lo studio dell’Osservatorio Solomon con quattro italiani ebrei, giovani donne e uomini tra i 28 e i 36 anni. Una nuova generazione che ragiona sul significato delle origini, e sull’odio, reale e virtuale, attraverso i cambiamenti del nostro tempo.
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ePartendo da un rapporto sull’antisemitismo, quattro ebrei italiani trentenni riflettono sulle loro identità. Tra shabbat senza smartphone, tradizioni di famiglia, ironia e pregiudizi (ancora) da combattere
Vietato usare la tecnologia.
«Lo shabbat nasce per ricordare la redenzione del popolo ebraico dalla schiavitù in Egitto. Oggi può diventare una pausa dai ritmi frenetici, nuovo giogo della società. Tanti amici non ebrei ne hanno apprezzato il significato e provano a loro volta a ritagliarsi un giorno “smartphone free”».
Memoria e ironia
Oltre all’1,3% di italiani negazionisti c’è un 10,5% che pensa che l’Olocausto sia sì esistito, ma con un numero di vittime ingigantito dalla Storia. «Segno di tempi cupi in tutto il mondo. C’è un movimento razzista, non solo antisemita, che cresce e gli episodi su Internet gli danno visibilità. I suoi esponenti sono un vero e proprio network, si sostengono, si sentono più forti. A questo si aggiunge un abbassamento del livello generale “di accettabilità”. Si dà poco peso ad affermazioni gravi», commenta
Talia Bidussa, 28 anni, padre livornese, madre veneziana, cresciuta a Milano. Diploma al liceo Classico statale Manzoni, «il luogo in cui ho iniziato a riflettere sulla mia identità», laurea in Giurisprudenza e varie esperienze di attivismo nelle associazioni ebraiche giovanili, Ugei e Eujs, e al carcere di Bollate. Oggi si occupa della programmazione culturale del Memoriale della Shoah di Milano.
«Lavoriamo su due direttrici quella del passato, la memoria, e quella del presente e del futuro, l’attualità. Ci sono schemi mentali pericolosi che tendono a ripetersi, bisogna imparare a riconoscerli». Anche per Talia la percezione generale dell’ebraismo è limitata. «Nei libri di Storia italiana si parla poco degli ebrei. Un accenno tra le civiltà antiche, poi più nulla fino alla Shoah e alla fondazione di Israele. Manca la parte di integrazione. La didattica ha un ruolo fondamentale nell’ abbattimento dei pregiudizi di
cui, ancora, siamo vittime».
Alberto Caviglia, 35 anni, romano, regista e autore, riflette su antisemitismo e shoah attraverso una lente «tipicamente ebraica», dice: quella dell’umorismo. Nel 2015 ha presentato alla Mostra del Cinema di Venezia Pecore in erba, mockumentary (finto documentario) che racconta l’antisemitismo da una prospettiva inedita. Da poco ha pubblicato Olocaustico (Giuntina), romanzo distopico su Olocausto e negazionismo. «Non avrei mai pensato di affrontare temi ebraici nel mio lavoro», confessa, «ma è stato un modo di dare voce a paure concrete». Secondo Alberto essere ebreo significa avere la responsabilità di portare avanti cultura e tradizioni millenarie. Per farlo non bisogna necessariamente osservare tutti i precetti religiosi. «Mia nonna Miriam mi portava di nascosto a mangiare gli spaghetti con le vongole (vietate dalla Kasherùt ndr)», ricorda con un sorriso, «ma mi ha insegnato valori imprescindibili dell’ebraismo: il rispetto per chi è diverso e il saper ridere, anche delle proprie disgrazie».
«Ho frequentato la scuola ebraica solo alle elementari, questo mi ha permesso di capire meglio la percezione che c’è di noi fuori dal nostro microcosmo». La consapevolezza dell’identità di Caviglia è passata dalla letteratura, «Philip Roth è stato fondamentale per mettere a fuoco alcuni aspetti tipicamente ebraici della mia educazione». Autori consigliati a chi vuole conoscere l’ebraismo moderno? «Shalom Auslander e Alessandro Piperno».
Il rapporto con Israele
Per i giovani italiani ebrei resta centrale il rapporto con Israele. «Credo stia cambiando», ipotizza Margherita Sacerdoti, 36 anni, esperta di comunicazione finanziaria ed ex membro del consiglio della Comunità ebraica di Milano. «L’interesse per il Paese resiste, ma non è necessariamente legato alla Aliyah, l’immigrazione ebraica. Tanti si trasferiscono a Tel Aviv perché ci sono più opportunità di lavoro. Io stessa ho vissuto lì per un periodo, ho frequentato un master e studiato l’arabo. Poi ho scelto di tornare. La società è, a mio parere, polarizzata tra laici e religiosi e molto diversa da quella europea». «La mia generazione», continua, «è ormai abituata a spostarsi per studio o carriera. Noi ebrei abbiamo la fortuna di far parte di una grande comunità internazionale, che, ovunque nel mondo, ci fa sentire a casa».
I ragionamenti di Margherita Sacerdoti vengono interrotti dalle risate del piccolo Davide, suo figlio di 20 mesi. «Gli trasmetto i precetti, ma da grande sarà libero di ragionare sull’ebraismo, come ho potuto fare io. Voglio che viva con gioia e consapevolezza le sue origini e si muova nel mondo con la forza della nostra tradizione».