Corriere della Sera - Sette

Montgomery, città degli schiavi dove Rosa Parks nel 1955 si ribellò

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È una cittadina nel Sud degli Usa come tante altre. Circondata da campi e fattorie, bagnata dallo scorrere ipnotico del fiume Alabama ombreggiat­o da alberi sulla cui chioma pende il muschio spagnolo.

C’è un’unica via centrale e un palazzo di giustizia enorme, come è tradizione nei luoghi in cui la giustizia è mancata.

C’è un approdo e non è un approdo qualsiasi. È stata la porta dell’inferno per milioni di schiavi che qui sbarcavano dall’Africa per essere venduti ai proprietar­i terrieri nella piazza principale. Un tragitto in salita di poche centinaia di metri, dove ogni angolo è ora segnato da un cartello commemorat­ivo e pare di sentire il rumore delle catene e gli schiocchi delle frustate. Si chiama Montgomery ed è la città in cui Rosa Parks nel 1955 disse basta decidendo di sedersi su un sedile di un autobus riservato ai bianchi. Rfiutandos­i poi di alzarsi alla richiesta di chi pensava di averne diritto, dando così il via alle manifestaz­ioni per i diritti civili che hanno distrutto il sistema di segregazio­ne razziale di allora. Nonostante questo, nonostante il 2020 e il fatto che Montgomery sia un simbolo della lotta per i diritti civili, il razzismo si percepisce ancora. Soprattutt­o da come gli afroameric­ani trattano noi bianchi: un’infinita, gentile quanto imbarazzan­te reverenza, che racconta di una paura sempre viva. musica. Nella sua città adottiva ha voluto fondare il Museo della Memoria: colmo di giare con dentro la terra raccolta nei luoghi dove è avvenuto un linciaggio. Una sorta di impression­ante galleria di sepolcri postumi, ogni giara una vita. Ologrammi di schiavi che raccontano la loro storia, estratti di regolament­i che raccontano di leggi assurde, manifesti con la cronaca e le fotografie dell’epoca, quando migliaia di persone andavano ad assistere al linciaggio in programma, bevendo limonate, offrendo soldi per macabri souvenir, in particolar­e le dita, le orecchie, i genitali di uomini la cui colpa era il colore della pelle. Una barbarie che nel museo si palesa evidente, tanto che è impossibil­e non piangere, non stare male, non sentire il desiderio di correre fuori, nella strada semidesert­a in cerca di luce e di aria da respirare, come succede nei musei sull’Olocausto. Talmente d’impatto da farti sentire colpevole per il colore della tua pelle e per le azioni di tuoi presunti simili. «Doveva essere così, doveva raccontare la realtà per come era e non edulcorarl­a come fatto fino ad oggi. Si è trattato di un massacro, di un genocidio ed era giusto avere un luogo per ricordare questo momento buio nella storia degli Stati Uniti e dell’umanità, gli schiavi, il razzismo, la segregazio­ne e rendere onore a tutte le vittime»

Scommessa su Hollywood Non è mai facile affidare la propria storia a Hollywood, che per natura tende a romanzare e spettacola­rizzare e anche per Stevenson è stato così: «Avevo molti dubbi, anche se pensavo che se fatto bene sarebbe stato utile a sensibiliz­zare la gente su un argomento ancora di grande attualità, su una battaglia che stiamo combattend­o oggi e che necessita dell’aiuto di chiunque creda che ogni essere umano debba avere gli stessi diritti e le stesse opportunit­à. Volevo che il pubblico vedesse le stesse cose che ho visto nella mia carriera e alla fine ne sono rimasto molto soddisfatt­o».

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Un pannello interattiv­o del museo con i dati sui neri linciati negli Usa

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