CARLOTTO E IL DELITTO DI MARGHERITA «LA PRESI TRA LE BRACCIA, ERA ANCORA VIVA»
Quando Maria Giuseppina, mamma di Margherita, scende dal taxi che dalla stazione l’ha portata in via Faggin sono da poco passate le 18. Le basta alzare lo sguardo verso l’abitazione per capire che qualcosa non va: luci accese e porta di casa spalancata. Una paura improvvisa le impedisce di entrare. Mentre arretra, incrocia il tenente Paolo Cesare Cagni, che sta rincasando. L’uomo vive con la moglie all’ultimo piano della stessa villetta. Maria Giuseppina gli chiede di entrare con lei. Nella casa regna un silenzio spettrale reso più sinistro dalle luci accese che suggeriscono una presenza negata dai fatti. Salgono al primo piano e su un letto vedono una camicetta tagliata e sporca di sangue. La donna inizia a urlare, mentre Cagni scorge
Lotta Continua. Davanti all’ufficiale di servizio, Carlotto racconta tutto d’un fiato: «Margherita è morta tra le mie braccia, ma non sono stato io a ucciderla». Quel pomeriggio il ragazzo è in via Faggin perché sta facendo un’inchiesta sulla droga. Il quartiere di Arcella pullula di spacciatori ai quali il Movimento degli studenti ha dichiarato guerra e Carlotto conosce la zona perché sua sorella vive col marito proprio al civico 27: il tenente Cagni è il cognato di Carlotto. «Quando ho sentito le urla», racconta il ragazzo, «sono corso in casa e ho trovato Margherita in fin di vita». La ragazza balbetta frasi sconnesse: «Che fai? Io ti ho dato tutto»; e poi: «Massimo, Massimo!». Carlotto davanti a questa sorta di accusa si spaventa e fugge. «È
l’aggressione. Sentendo i passi lungo le scale, l’omicida si sarebbe nascosto nell’armadio, lasciando la ragazza ferita ma viva. Carlotto infatti giura di aver visto sul corpo solo 6 o 7 pugnalate, ma fuggendo avrebbe dato all’assassino il tempo di terminare il suo crimine. I periti ammettono che Margherita, non lucida, possa aver ripetuto come un disco rotto l’ultima frase detta all’assassino («Cosa mi fai?») intervallandola col nome del suo soccorritore. Un esperimento giudiziale dimostra la possibilità dell’omicidio in due tempi, come si legge nei verbali: «Si dà atto che una persona nascosta dietro i vestiti dell’armadio a muro non è visibile». Il 5 maggio 1978 arriva la sentenza: assoluzione per mancanza di prove. Ma i Carabinieri accusano la Corte di aver assecondato il «clima di provocazione che si è creato a Padova». Inizia una lunga storia giudiziaria che vedrà Carlotto subire 7 processi e 11 sentenze. Su suggerimento di un legale, il ragazzo fugge in Messico, dove vivrà per tre anni. Fino a quando, espulso, si costituirà alla dogana di Linate. Intanto, lo scrittore Jorge Amado lancia un appello per la revisione del processo. E sui nuovi documenti raccolti dalla difesa, la Corte concede il riesame. Tre anni dopo, la Cassazione annulla la condanna sulla base di una nuova prova: l’impronta di una persona che non era Carlotto sul piede
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