L’infatuazione punk dei 14 anni che mi insegnò ad accettarmi
Quando avevo quattordici anni, a Biella esisteva un gruppetto di ragazze e ragazzi punk che mi attraeva molto. Erano più grandi di me, coi capelli tinti di blu, fucsia, verde, e ampie file di borchie cucite sui giubbotti, catene al posto delle cinture, jeans ridotti a brandelli. Non era chiaro se andassero a scuola, quali lavori facessero.
chiesa, di vivere in un’altra società possibile, era troppo forte.
Tirai fuori dall’armadio tutti i jeans e li tagliai all’altezza del ginocchio, li spruzzai di candeggina. Pescai bizzarri maglioni fuori moda dall’armadio di mia madre. Mi scucii gli orli della giacca, vi attaccai spille e lucchetti, appesi un cavatappi alla cintura per le birre che non bevevo. Mi stavo spogliando di un’uniforme per indossarne un’altra, ma questo, in prima superiore, non poteva risultarmi chiaro. Credevo che quella fosse la mia ribellione. E, quando finalmente mi sentii pronta, mi presentai sul serio, sola, di fronte a loro. Non ricordo con quale scusa tentai un dialogo. Ricordo solo che mi risero in faccia. Fu brutale, umiliante, ma io m’intestardii. Tornai ogni sabato finché, sia pure ai margini, fui tollerata nel perimetro del sagrato.
Nel gruppo c’era un certo M che scriveva poesie. Possedeva un quaderno su cui vergava i suoi componimenti, poi li leggeva a voce alta agli amici, sempre ammirati. Anche io, per quanto alcuni versi mi suonassero banali, non dubitavo fosse un Baudelaire. Me ne invaghii. Nella società dello struscio le poesie non importavano a nessuno, mentre qui, fra i punk, venivano apprezzate.
Io ne scrivevo fin dalla quarta elementare, leggere era la mia più grande passione. Pensai che, finalmente, potevo condividerla con altri, sentirmi parte di un gruppo. Nel sabato più infame della mia adolescenza, arrivai sotto la chiesa da M, col mio quaderno. Glielo diedi. Tale fu l’emozione che dovetti andarmene. Non potevo rimanere davanti a lui mentre leggeva. Mi allontanai, ma ero così curiosa che andai a nascondermi dietro la vicina edicola per spiare la reazione sul suo volto.
Ed ecco M, per il quale non facevo che litigare coi miei genitori e con le mie amiche, che spalanca il quaderno, legge a gran voce una mia poesia (ma non per intero, solo qualche verso). Scoppia subito a ridere, tutti si sganasciano. Quindi richiude il quaderno, si alza e va a buttarlo nel cestino.
Vorrei poter dire che, dopo, non tornai più sotto la chiesa, ma non è così. Dovettero passare ancora parecchi anni prima che io imparassi ad accettarmi per come sono. Oggi, ogni volta che ricevo una critica o una stroncatura, non mi fa piacere, certo. Ma ho avuto un degno battesimo del fuoco quel pomeriggio. E, piano piano, con fatica, mi sono esercitata alla possibilità di non piacere, alla realtà di essere io e non un’altra.
Ammetterò anche che, anni dopo, a Biella, davanti a una libreria con un mio romanzo in vetrina, a volte l’ho pensato: Chissà se M lo ha visto? Ma questa eventualità non mi ha mai dato soddisfazione. Non credo che la vita sia una gara. Quel che conta, secondo me, e che può liberarci, è coltivare una passione, farne la propria identità, anche senza il plauso di nessuno. Solo per amore.