FERLINGHETTI E LE SUE FOTO DAL FRONTE «NOI LIBERATORI? ERAVAMO CONQUISTATORI»
I suoi occhi sono davvero quelli «meravigliati di un gufo sveglio», come scrive nell’autobiografia in stile beat Little Boy, uscita in Italia (da Clichy) a fine 2019, anno in cui Lawrence Ferlinghetti, padre putativo dei poeti beat, ha compiuto 100 anni (il prossimo 24 marzo ne fa 101). Per motivi di salute, non ha presenziato agli eventi in suo onore, nemmeno il Ferlinghetti Day, dalle parti di North Beach, il quartiere italo-americano di San Francisco dove aprì nel 1953 la celebre libreria City Lights, che svetta ancora con le sue vetrine piene di libri, citazioni, foto e luci che la illuminano fino a tardi, testimoniando quanta cultura è passata da lì. Così, quando sbuca all’Harvey Milk Photo Center dove ha messo in mostra le sue foto di guerra, si azzerano i gradi di separazione tra i presenti e Thomas Dylan, Beckett, Sartre, Kerouac... che lui ha frequentato, non solo pubblicato. Probabilmente, alla fine della nostra vita saremo più fantasmi di lui, ma ora sembra lui il fantasma: in salute e di ottimo umore, come dimostra la frecciatina che rivolge all’amico Jack Hirschman, poeta e amico di lungo corso, arpionato a un bastone gigante come lui: «Jack, so che non sei Walt Whitman, ma di’ qualcosa di immortale». Jack sprofonda nella sedia e ricambia il colpo con una carezza. Prende sul dorso la mano di Lawrence e recita
Devi avere il cuore infranto per accogliere la vita, che inizia così: «Va’ al tuo cuore infranto / Se pensi di non averne uno, procuratelo. / Per procurartelo, sii sincero. / Impara la sincerità di intenti / lasciando entrare la vita,/ perché non puoi, davvero, fare altrimenti». Le mani dei due vecchi amici si staccano, il tempo riprende a correre.
Ferlinghetti ha un cappello da baseball che protegge lo sguardo, sorpreso di essere così vigile dopo 100 inverni; sbrilluccica al lobo sinistro un orecchino e la barba bianca sbuca fuori dalla t-shirt nera sotto la camicia a scacchi. È arrivato accompagnato dal figlio Lorenzo – cappello da baseball ma camicia
con fenicotteri rosa – e dall’amica Maria Gilardin, che ha curato la mostra con David Christensen, direttore dell’Harvey Milk Center. Le foto erano in due scatole che Ferlinghetti portò dal fronte, scattate prima, durante e dopo lo sbarco in Normandia, dove partecipò come luogotenente al comando di un cacciatorpediniere incaricato di intercettare i sottomarini tedeschi: prima addestrando pescatori norvegesi alla guerriglia anti-nazista, poi in appoggio allo sbarco delle truppe Usa durante il D-Day; infine, in perlustrazione su Cherbourg, località francese occupata dai nazisti, bombardata dagli alleati e liberata. Alla piccola folla di fan e amici del
Milk Center, tra cui Mauro Aprile Zanetti, assistente di Ferlinghetti operoso come un’ape a primavera, il poeta spiega perché non aveva mai pensato di rendere pubbliche queste foto: «Non sono artistiche, sono documenti di qualcosa che ho vissuto. Però mi ricordano una cosa importante: mentre le scattavo pensavo che fosse gloriosa la nostra azione, ma la guerra non è mai elegante, né gloriosa, neanche se la descrivi nel migliore dei modi».
I ragazzi del D-Day
Gli chiediamo quale sia il ricordo di guerra più forte: «Il primo giorno dell’invasione in Normandia, quando con il mio cacciasommergibile eravamo dispiegati in migliaia di imbarcazioni pronti a lasciare i porti da tutta l’Inghilterra verso le spiagge della Normandia. E ricordo molto bene il primo attacco della Luftwaffe in un giorno molto nuvoloso. Eravamo completamente nascosti dentro le nuvole da non poterci vedere l’un l’altro. Noi facevamo fuoco dove era il suono. E la Luftwaffe faceva lo stesso bombardandoci, senza che nessuno dei due sapesse se aveva centrato o meno il bersaglio».
Ferlinghetti, come ricorda in Little Boy, si era arruolato convinto di salvare la democrazia, «a quel tempo non era uno slogan cinico, ci credevamo davvero». E rivolto a
non eravamo liberatori, ma conquistatori, camminando nei nostri territori conquistati».
L’apocalisse di Nagasaki
Il vero strappo nella coscienza di Ferlinghetti arriva in Giappone, con Nagasaki: non a caso, il poeta è riapparso in pubblico per l’inaugurazione della mostra, il 9 agosto, anniversario dello sgancio della bomba atomica. Dopo aver operato nell’Atlantico, infatti, Ferlinghetti è nel Pacifico su una nave per trasportare
Non c’era traccia di esseri umani, gli americani avevano fatto sparire tutti i cadaveri... se erano restati dei cadaveri».
Ferlinghetti non ha foto di quei momenti, ma i ricordi sono vividi. Tra gli oggetti che colpiscono Ferlinghetti, una tazza da tè in porcellana che ha una forma strana, sembrava essersi fusa con carne umana. «In quel momento sono diventato pacifista, un totale pacifista – continua –. Lì ho capito che non solo non eravamo dei liberatori, ed eravamo