SERGIO PARISSE «SALUTO IL SEI NAZIONI. IL MIO TEMPO È PASSATO CI SARANNO NUOVI LEADER»
L’esordio a 18 anni contro la Nuova Zelanda, la vita da capitano. Le vittorie con i francesi dello Stade Français e qualche delusione con la maglia italiana. A pochi giorni dalla sua ultima partita con la Nazionale, il rugbista si racconta. E ai compagni dice: «Dobbiamo ritrovare la mischia»
«No, non mi sento come uno a cui abbiano tolto qualcosa. L’idea di non giocare tutto il Sei Nazioni, di non giocare le prime partite non è stata improvvisa. Sensazioni? Ansie? Ma no, è una stagione di grandi cambiamenti, inevitabili. Ci sono arrivato preparato, quindi nessun problema». Sergio Parisse, molto probabilmente il miglior giocatore italiano di rugby di sempre, il miglior numero 8 del mondo dell’ultimo decennio secondo il Times, totem e capitano della Nazionale dal 2008, non sarà in campo domani a Cardiff contro il Galles. A 36 anni, dopo cinque Coppe del Mondo e 142 presenze in azzurro (solo il neozelandese Richie McCaw e il gallese Alun
Wyn Jones gli stanno davanti) è arrivato il momento di far giocare gli altri.
«Ho lasciato lo Stade Français e Parigi dove ho vissuto 14 anni, dove sono stato capitano e vinto due campionati. Ora sono a Tolone, un altro mondo, ma qui i tifosi ti riconoscono, li senti. Mi trovo bene, sto bene. Silvia, mia moglie, mi dice che sembro ringiovanito, anche se non mi sono ricresciuti i capelli. Meglio di tutti sta Leonardo, mio figlio, che ha due anni e mezzo ma sembra ne abbia cinque e ha già cominciato a divertirsi con una palla ovale. Il club è forte, siamo partiti forte e ho deciso di mettere davanti gli interessi della società che mi ha dato questa possibilità. Avevo però un desiderio, anzi ce l’ho ancora: chiudere con la Nazionale all’Olimpico, a Roma, davanti al nostro pubblico, gli amici, i familiari». Anche perché in Giappone l’uragano Hagibis le ha impedito di affrontare per l’ultima volta gli All Blacks in Coppa del Mondo.
«No. Tenevo tanto a quella partita, ma tengo di più a chiudere all’Olimpico. Ne avevo già parlato in Giappone con la federazione e il c.t. Conor O’Shea, poi è arrivato Franco Smith, col quale ho anche giocato per due anni a Treviso. È venuto a trovarmi a Tolone, siamo d’accordo. Il 14 marzo, contro l’Inghilterra, penso sarà quello il giorno».
Ha sempre sostenuto e difeso il lavoro di O’Shea, ora è arrivato il momento dei bilanci: il salto di qualità e le vittorie non sono arrivate. Perché?
«O’Shea ha fatto un lavoro importante, ha migliorato la nostra organizzazione. È stato un c.t. che guardava oltre la Nazionale, ma non ha vinto. Penso a quattro partite che dovevamo e potevamo portare a casa: Tonga dopo la vittoria col Sudafrica, il primo test del tour in Giappone, la Scozia nel 2018 e la Francia un anno fa. Avessimo vinto quelle partite i giudizi sarebbero cambiati».
L’Italia riparte da un nuovo allenatore, a interim sostiene la federazione, un po’ di facce nuove, senza di lei ma con il peso di una serie lunghissima di sconfitte.
«Smith ci conosce, conosce i giocatori, parla italiano, tutte queste cose lo aiuteranno. Lui, poi, ha una visione diversa rispetto al lavoro fatto negli ultimi anni. Per me è una scelta giusta, se farà un buon Sei Nazioni resterà e sarà una buona cosa». Fare un buon Sei Nazioni non sarà però semplice.
«Per riuscirci dovremo tornare al nostro dna, alla nostra tradizione. Siamo sempre stati una squadra fisica, magari poco spettacolare ma scomoda per tutti».
Quindi brutti e cattivi?
«Più o meno. Dobbiamo ritrovare la mischia, per anni abbiamo avuto grandi piloni e siamo stati dominanti davanti, nelle ultime stagioni abbiamo solo retto il confronto, ma non è ba