Sono sola, la stanza mi si chiude addosso
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Caro Massimo, pochi mesi fa ho lasciato il mio compagno dopo due anni di convivenza e ora, tornata dai miei genitori, mi trovo a vivere in una casa che non sento più mia, sospesa in questo tempo morto, tra un passato che non mi soddisfaceva più e un futuro che mi spaventa. Ho 28 anni e anche se razionalmente posso concedermi il lusso di pensare che ho una vita davanti, la mia parte più oscura mi obbliga a sentirmi una fallita nel vedere le amiche sposarsi e fare figli, mentre io dormo su una brandina nella mia vecchia camera. Guardare su Instagram giovani coppie che si dilettano tra faccende domestiche e serie tv non fa che amplificare il dolore che provo nel ricordo della vita di prima. Ho preso questa decisione perché con lui mi stavo spegnendo. Purtroppo (per fortuna?) si cresce, si cambia e succede di non riconoscersi più. Se i progetti che prima sembravano uguali smettono di esserlo e la persona con cui sei cresciuta non corrisponde più a quello che ti aspetti dalla vita, bisogna avere la forza di lasciarla andare. Lo dico per farmi coraggio, mentre mi sforzo di fare gesti di routine quotidiana, lavare i piatti o buttare la pattumiera, trattenendo le lacrime, perché quei gesti mi ricordano una vita che ho vissuto e che vorrei, ma che con lui non avevo più la serenità di avere. Questo virus mi lascia immobile, senza un modo costruttivo per godere di queste giornate in cui potrei leggere, scrivere, fare yoga, mentre sono qui e la stanza mi si chiude addosso.
Maria
CARA MARIA, come ti capisco. Come ti capiamo tutti. Il contagio ci ha congelato le esistenze, lasciandoci alle prese con i problemi irrisolti e aggiungendone di nuovi. Anche se la tua mente amplifica e distorce la realtà (è il suo mestiere), ti assicuro che il malessere è universale, perché tutti hanno una mente distorcente all’opera e si sentono più sfortunati degli altri. Io ho due bambini piccoli da intrattenere e a volte mi sembra di impazzire, ma tu giustamente baratteresti il mio caos per nulla calmo con la quiete angosciosa della tua stanza. Così come la tua malinconia da single di ritorno ti induce a magnificare, nell’immaginazione, le convivenze altrui. Mentre ti assicuro che in molti tinelli c’è gente che si scanna, e talvolta non solo per modo di dire.
L’isolamento ti ha sorpreso in un momento di transizione. E quando l’inazione si aggiunge alla transizione, il risultato è il senso di impotenza che ti attanaglia. Non sei più quella di prima e non sei ancora quella di dopo. Quindi che cosa sei? Quella di ADESSO. Scusa, mi infastidisce chi scrive a colpi di maiuscole: sembra sempre che urli. Ma è proprio di un urlo che tu hai bisogno in questo momento. Un urlo che ti risvegli.
Sei una donna sensibile e intelligente, si capisce da come ti racconti. Ma la sensibilità e l’intelligenza non sono di per sé una garanzia. Dipende dall’uso che se ne fa. In una condizione di ozio come l’attuale possono spingerti a identificarti totalmente con la tua mente (ed è quello che sta accadendo), trasformandoti in una persona suggestionabile, lamentosa e spaurita.
Ma possono anche scendere fino al cuore per allargartelo, se tu ti sforzi di permetterglielo. Leggendo, scrivendo e facendo yoga, perché no? Facendo tutto ciò che servirà a espandere la stanza in cui sei rinchiusa, metafora fin troppo esplicita della tua anima in cerca d’aria fresca.
«HO DA POCO LASCIATO IL MIO COMPAGNO E SONO TORNATA DAI MIEI GENITORI. MI SENTO UNA FALLITA, QUESTO VIRUS MI IMMOBILIZZA»
Caro Massimo, sono, anzi ero, una pendolare, che faceva avanti e indietro tra Milano e Torino. Quel 24 febbraio in cui lentamente tutto ha iniziato a fermarsi mi è stato offerto un nuovo lavoro in un’azienda grande, nella mia città e ho deciso di accettare tra mille dubbi: «E se da qui a quando firmo cambia il mondo per il coronavirus, che faccio?». E tutti a dirmi: «Sei la solita ansiosa…». Mi sono licenziata, ho firmato il nuovo contratto, ho iniziato il primo giorno di formazione aziendale e… nel giro di quello stesso giorno mi hanno sospeso lo stage e lo stipendio. A me, come ad altri mille e forse più, ragazzi (e non solo). Lavorare mi manca. Mi manca avere un senso, uno scopo. Ogni sera prima di addormentarmi faccio un piano delle cose da fare il giorno dopo: pulire la casa, cucinare, guardare dei tutorial su YouTube, guardare film in inglese per non perdere l’inglese che mi servirà quando, si spera, tornerò a lavorare. Ci sono però mattine in cui mi chiedo se ci rendiamo conto del grande cambiamento che arriverà dopo. Che cosa cambierà nella nostra vita e che cosa sarà del nostro Paese.
Il 20 aprile compirò gli anni e mi chiedo se riuscirò a festeggiare con mio fratello che vive a Milano e non vedo da due mesi, e se potrò riabbracciare i miei genitori e i miei suoceri. Quando la gente dice «riscopriremo il significato delle piccole cose e dello stare insieme» mi verrebbe voglia di rispondere: per una settimana. Ma poi? La verità è che le cose si riscoprono quando ti escono dall’anima e non perché qualcuno ti impone una quarantena… Non so di che cosa ho paura, ma oggi è una giornata NI. Ieri era una giornata NO, oggi NI, speriamo che domani sia SÌ.
Greta
CARA GRETA, attraverso di te ringrazio tutti coloro che ci stanno scrivendo lettere potenti, profonde, meravigliose. Siamo una comunità e mai come adesso la rubrica di un giornale diventa un’occasione per sentirsi meno isolati. Anch’io penso che non basterà quest’epidemia a cambiare la nostra natura, così come non sono bastate le tantissime che l’hanno preceduta nel corso dei secoli. L’umanità ai tempi del coronavirus mi ricorda certe promesse di Pinocchio alla fata Turchina: sarò buono, vorrò bene ai genitori, rispetterò il prossimo e l’ambiente… Promesse che verranno dimenticate appena si uscirà dallo stato di alterazione emotiva che le ha determinate. Perché gli unici cambiamenti veri, lo hai detto benissimo tu, partono da noi, non vengono indotti da un accadimento esterno. Però penso anche che, a livello esteriore e collettivo, un cambiamento ci sarà. Le guerre e le epidemie distruggono sempre un paesaggio, fisico o emotivo, e ci costringono a ricostruire. All’inizio di un suo bellissimo libro sul dopoguerra,
Aldo Cazzullo scrive che allora le persone uscivano di casa dicendo «speriamo che oggi mi succeda qualcosa», mentre i loro figli e nipoti escono pensando: «Speriamo che oggi non mi succeda niente». Immagino che nel dopovirus torneremo a uscire di casa pensando: «Speriamo che oggi mi succeda qualcosa», che è poi la molla indispensabile di tutte le rimonte.