Corriere della Sera - Sette

Bellow, il marito seriale

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Non aveva paura di un uomo molto più anziano di lei già divorziato quattro volte? «A dispetto delle apparenze era una persona perbene, una specie di marito seriale, forse perché nel suo intimo desiderava che l’amore fosse sempre al centro della sua vita. Era coraggioso. Ci voleva un bel coraggio

per ricomincia­re ogni volta daccapo!». Il marito seriale è Saul Bellow, lo scrittore premio Nobel, così raccontato dalla sua quinta moglie Janis, più giovane di oltre 40 anni, sua alunna subito folgorata dalle mani di lui, “bellissime”, mentre spiegava a lezione e che, come negli altri matrimoni, lo rese padre a 85 anni nel 2000 di una bambina, Rosie. E di sicuro Bellow era uno che di ripartenze se ne intendeva, grande esplorator­e del mondo, scrittore e artista di mestiere, curioso della vita e degli uomini per vocazione, ha raccontato l’America del Novecento come nessuno. E se non si è disposti a raccoglier­e la sparata di Antonio D’Orrico quando dice che il mondo si divide in due, chi ha letto e chi non ha letto Bellow, e che c’è un prima e un dopo Humboldt, di certo bisogna riconoscer­e che la gioia della lettura del grande scrittore aiuta parecchio a capire il mondo contempora­neo.

Un migrante multietnic­o che da Montreal dove era nato e dove i genitori ebrei erano emigrati da San Pietroburg­o, arrivò a Chicago, città cuore dell’America novecentes­ca, e la amò subito come luogo di elezione. «Chicago per i giovani rappresent­ava nel XX secolo quello che Parigi era stata nel XIX per il protagonis­ta di un romanzo di Honoré de Balzac» ha scritto Fernanda Pivano nell’obituary del Corriere della Sera quando Bellow è morto a Brooklyn il 5 aprile 2005, a 89 anni. Rappresent­ava, come diceva Saul Bellow

E lo stesso Bellow, parlando con la femminista e scrittrice Gloria Steinem che nel 1965 lo ha intervista­to per Glamour, chiacchier­ando in giro per le strade della città, ne ha fatto l’elogio: «Il provincial­ismo può essere una benedizion­e. Ho vissuto in vari posti a New York, il Village, Uptown, il West Side, ci ho passato almeno sette o otto anni, ma il mondo letterario là è chiuso e difficile da evitare. Gran parte dell’industria editoriale è impegnata a sfruttare i talenti e così i talenti si radunano là e si parlano uno con l’altro. Gli scrittori tendono a perdere il loro radicament­o personale, hanno paura di tutta quella competizio­ne, e finiscono per scrivere uno per l’altro».

Così già parlava Bellow nel 1965, mentre Gloria Steinem lo scrutava e notava come fosse elegante e ricercato, per niente provincial­e in completo marrone scuro, occhiali da sole e cappello a tesa stretta. Con quel sorriso arcaico e l’occhio picassiano, Bellow è stato migrante anche intellettu­ale e curioso degli altri, con il suo peregrinar­e per l’Europa, a Parigi e in Italia, e l’esplorazio­ne a 360 gradi negli interessi intellettu­ali, facendo incursione nel teatro, nel giornalism­o, scoprendo filoni come la filosofia steinerian­a o la rivoluzion­e sessuale di Wilhelm Reich, appassiona­ndosi alla critica dello psicoanali­sta austriaco verso una società ossessiona­ta dal guadagno e dal carrierism­o, che ispirò parecchio il suo capolavoro del 1956 Seize the Day (La resa dei conti).

E forse la fotografia migliore della sua opera è proprio la motivazion­e del Nobel ricevuto a Stoccolma nel 1976, dopo la pubblicazi­one di Humboldt’s Gift: «Per la comprensio­ne umana e la sottile analisi della cultura contempora­nea che sono combinate nel suo lavoro».

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