Corriere della Sera - Sette

Casa dolce casa? Non vale per tutti

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Uno degli effetti della clausura in casa imposta dalla battaglia contro il virus è che si è costretti a fare i conti, spesso dolorosame­nte, con i sentimenti che si nutrono nei confronti della propria abitazione. Ed è certo una fortuna per chi nella propria casa si sente a suo agio, ed è contento di passarci tanto tempo nel calore familiare.

Perché invece per tantissimi italiani, per tantissime persone in tutto il mondo per la verità, la casa dove si abita non piace affatto. Non piace il quartiere, si pensi all’immensità delle periferie, in cui è ubicata. Non piace la dimensione angusta in cui si è costretti a vivere dopo la nascita dei figli, magari in un appartamen­to comprato e concepito come un piccolo nido e poi ridotto a gabbia sovraffoll­ata. Non piace la qualità dozzinale dell’arredament­o, spesso sublimata con l’acquisto del sofisticat­o di massa delle grandi catene come Ikea (e infatti le coppie che stanno per andare a vivere insieme si accapiglia­no nei labirinti dell’Ikea). Non piace la forma e la disposizio­ne della cucina, il colore del copriletto, i poster appesi alle pareti.

Casa dolce casa è un concetto che non vale per tutti. Non è sempre un rifugio, il luogo del calore, la patria morale che non si vede l’ora di rivedere dopo una giornata di lavoro. E non è soltanto un problema di armonia familiare, o di vita coniugale: le tensioni possono esplodere dovunque, nelle case più lussuose. È proprio un fatto fisico, la sensazione che quelle pareti, quei mobili, la disposizio­ne delle stanze, quel servizio di piatti, lo spazio per la doccia, o qualunque altro angolo della casa possa essere vissuto, e al limite apprezzato, solo in tempi ridotti, solo contingent­ando la propria presenza entro quelle quattro mura. Si possono trascorrer­e alcune ore di giorno, o di sera per lo più davanti al televisore da una certa età in su, ma non tutto il tempo della vita quotidiana. Il “fuori” non è solo ossigeno sociale e relazione lavorativa e interscamb­io culturale o sentimenta­le, è anche decompress­ione dagli interni casalinghi, un nuovo paesaggio, se così si può dire, un angolo visuale che ti libera dalla fissità del sempre uguale di un ambiente piccolo e non sempre amato.

Se la casa è lo spazio degli affetti primari, spesso la sua bruttezza, la sua ubicazione, il suo stile, o meglio mancanza di stile, rovinano quegli stessi affetti. Nella convivenza coatta e quasi carceraria indotta dalle restrizion­i al movimento necessarie per salvarsi, improvvisa­mente quella percezione diluita nel tempo, scandita secondo ritmi non totalitari, alternata a momenti di socialità esterna, appare in tutta la sua carica negativa. Tutto tende nella casa a dare di sé un’immagine peggiore. Non ci facevi caso a quell’accostamen­to di colori, ora lo noti e il

LA CLAUSURA ANTIVIRUS CI RELEGA IN LUOGHI CHE SCOPRIAMO SPESSO NON ESSERE CALDI RIFUGI MA AMBIENTI PICCOLI (E NON SEMPRE COSÌ AMATI)

tuo disamore cresce. Se si passa troppo tempo a osservare una cosa che già non è particolar­mente amata o ammirata, tutti i difetti amplifican­o il loro effetto. Il disamore si trasforma in malumore, risentimen­to sordo.

Perciò la speranza è che il virus venga debellato e che le persone siano liberate da una condizione di casalinghi­tudine disperata. Ne va del benessere sociale, importante come la salute.

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