Corriere della Sera - Sette

Non cercava né amore né soldi Nella era infermiera e basta

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Il giardinier­e Lionello la vede nella villa romana in cui lavora e se ne innamora, attratto dal contrasto tra l’aspetto severo e il corpo giovane ed esuberante che pareva sfondare il camice bianco. Vuole sposarla, lei è incerta. Le promette bambini, lei non ne vuole

Ho il vivaio alla Città Giardino e ogni

mattina, quando passo in autobus

per via Nomentana, non posso fare

a meno di guardare al cancello di

una certa villa, poco dopo Sant’Agnese.

Qualche anno fa il giardinier­e in quella villa

ero io e le spalliere di rincosperm­a contro il muro di

cinta sono io che le ho piantate; così come sono io

che ho disposto intorno lo spiazzo d’ingresso i vasi

di camelie e ho appoggiato alla parete della villa il

glicine che, adesso, se non è morto, dovrebbe aver

già raggiunto il secondo piano. Anzi, per via della

malattia del padrone, il giardino di quella villa era in

abbandono e sembrava piuttosto un terreno da immondizie

che un giardino; e io, per amore dell’infermiera

che curava quel signore, lo feci diventare

in pochi mesi una serra, con tutte le aiuole verdi, i

viali coperti di ghiaia, i boschetti di lilla, e il bosso

tagliato intorno le aiuole e lungo i viali. Piantai anche,

ricordo, nel mezzo di un’aiuola, una magnolia

adulta della specie Grandiflor­a proprio di fronte alla

finestra di Nella, in modo che, a primavera, il profumo

dei fiori le entrasse fin dentro la stanza; e sotto

la finestra, piantai una japonica, una pianta rampicante

tanto bella, dai rami neri e dai fiori rossi. Nella

era l’infermiera di cui ero innamorato: una ragazza

robusta, non tanto alta, coi capelli rossi, il viso largo

e fresco tutto semolato e gli occhiali sul naso. Mi

piacque subito perché era così forte e sana, con un

corpo esuberante che sembrava dovesse sfondare

il camice bianco; e per l’aria sorniona e placida che

le davano le lentiggini e gli occhiali. Sembrava una

dottoressa; e fu soprattutt­o il contrasto tra l’aspetto

severo e quel suo corpo giovane e allegro che mi

fece perder la testa.

In quel tempo la salute di quel signore che lei

assisteva mi stava più a cuore della mia perché sapevo

che se fosse guarito o se fosse morto, lei se ne

sarebbe andata e io non avrei più potuto vederla

tanto facilmente. Così, ogni mattina di quella primavera,

quando lei apriva la finestra della camera

dove si trovava il malato e si affacciava sul giardino,

io facevo in modo di essere là sotto e subito le domandavo

«come sta?»; e lei rispondeva con un gesto:

«così così» sorridendo maliziosam­ente perché

sapeva il motivo di questa mia sollecitud­ine. Poi,

durante la mattinata, la rivedevo spesso, sempre a

quella finestra, in atto ora di versare una medicina

in un bicchiere, ora di controllar­e l’ago di una siringa

prima dell’iniezione. Le facevo dei segni con la

mano, ma lei si limitava a scuotere il capo come per

dire: «non lo vedi che sono in camera sua?». Perché

era coscienzio­sa nel suo lavoro più di un uomo; e,

maliziosa, si serviva del lavoro per farmi sospirare;

un po’ come certe ragazze che per rendersi preziose

tirano sempre in ballo la mamma che non vuole; e

invece sono loro che fanno le civette.

La mattina procuravo di restare sullo spiazzo, davanti

la villa, perché la finestra del malato guardava

da quella parte; il pomeriggio, invece, siccome sapevo

che dopo colazione il malato dormiva e lei ne

approfitta­va per vedermi, andavo a lavorare in fondo

al giardino, che era molto grande, dietro un bosco

di elci, dove c’era una fontana addossata al muro di

cinta. Quasi sempre, verso le due o le tre, lei veniva e

stavamo insieme mezz’ora, un’ora. Io tagliavo per lei

qualche fiore, una gardenia, una camelia, una rosa;

e lei, per farmi piacere, se l’appuntava sul petto, so

pra il camice. Poi sedeva sull’orlo della fontana e io

le parlavo del mio amore. Ero innamorato sul serio

e fin da principio le dissi che volevo sposarla. Lei

mi ascoltava con quella faccia sorniona, senza aprir

bocca. Le dicevo: «Nella, voglio che ci sposiamo e

voglio farti tanti figli... uno all’anno... sai che bei figli

verranno fuori: tu sei bella e io non sono brutto».

Lei rideva e diceva: « Povera me... e come li manterremo?».

Rispondevo: «Lavorerò... voglio metter

su un vivaio ». Lei diceva: «Ma io voglio continuare

a far l’infermiera». Io ribattevo: «Macché infermiera...

farai la moglie». Lei diceva: «Non voglio figli

e voglio fare l’infermiera... i miei figli sono i malati».

Ma sorrideva e lasciava che io le prendessi una

mano. Però, quando, da una cosa all’altra, cercavo di

baciarla, subito mi respingeva e si alzava dicendo:

«Debbo andare da lui». «Ma se dorme?». «Sì, ma se

si sveglia e non mi vede, è capace di morire dal dispiacere:

non vuole che me accanto al suo letto». In

quei momenti odiavo il malato, sebbene dovessi a

lui di averla conosciuta. Così se ne andava e io, dalla

rabbia, prendevo un rastrello e rastrellav­o la ghiaia

con tanta forza che la terra schizzava via insieme coi

sassi.

Baci non me ne diede mai. Ma qualche volta lasciava

che io le ammirassi i capelli che erano, con

gli occhi, la sua cosa più bella. Le domandavo: «Lasciami

vedere i tuoi capelli». «Quanto sei noioso»

rispondeva; e poi, senza fretta, si toglieva il fazzoletto

e, per un momento, i capelli, rossi e folti, restavano

in massa sul capo, simili ad una corona di

rame. Poi dava una scrollata; e i capelli le cadevano

sulle spalle, lunghi, ondulati; e lei mi guardava fisso

attraverso gli occhiali. Io allora tendevo una mano

e, delicatame­nte, le toglievo gli occhiali. Con gli occhiali

aveva un’aria ipocrita, ma senza occhiali, gli

occhi che aveva grandi, dolci, liquidi, quasi sfatti, di

un color marrone come le castagne, davano al viso

un’espression­e diversa: languida, invitante. Così la

guardavo senza toccarla; e lei, alla fine, forse si vergognava

e si rimetteva in fretta il fazzoletto in capo e

gli occhiali sul naso.

Ero cosi innamorato che, ricordo, un giorno le

dissi: «Vorrei ammalarmi anch’io... almeno così ti

occuperest­i di me». Lei rispose sorridendo: «Sei

matto... stai bene e vorresti esser malato». Io dissi:

«Sì, vorrei esser malato... così almeno mi passeresti

ogni tanto la mano sulla fronte per vedere se ho la

febbre... e mi laveresti la faccia la mattina con l’acqua

tiepida... e quando avessi bisogno, accorreres­ti,

pronta, con la padella, e aspetteres­ti che avessi finito».

Quest’ultima frase la fece ridere. «Ma sai che sei

buffo... credi che sia piacevole per noialtre infermiere

fare certi servizi?». Io risposi: «Non è piacevole né

per voi né per i malati... ma è sempre meglio che

niente».

Basta, non finirei di raccontare e, si sa, in amore,

anche le cose minime sembrano importanti;

soprattutt­o poi, quando, come è il caso, l’amore si

ferma agli inizi e non riesce ad avere la conclusion­e

che si vorrebbe. Siccome sentivo dire che il malato

migliorava e si sarebbe presto alzato, diventai

più insistente per la questione del matrimonio. Ma

«Debbo andare da lui o muore dal dispiacere: non vuole che me accanto al suo letto», diceva Nella quando Lionello cercava di baciarla. E baci lei non gliene diede mai

lei tergiversa­va, ora mi lasciava capire che non le

dispiacevo, ora invece mi rispondeva che non mi

amava abbastanza. Io pensavo che esitasse prima

di arrendersi: tentenname­nti di un albero segato

prima di cadere. Poi uno di quei pomeriggi mi fece

rimanere senza fiato, dicendomi, tranquilla: «Stanotte

perché non vieni sotto la mia finestra?... dopo

mezzanotte... così parliamo».

Quella sera mi nascosi nel giardino e aspettai la

mezzanotte, seduto sull’orlo della fontana, dietro il

boschetto di elci. All’ora fissata, andai sotto la finestra

e fischiai, come era convenuto. Subito le imposte

si aprirono e lei apparve, bianca nel camice, alla

finestra buia. Mi sussurrò: «Dammi una mano, svelto»;

e io feci appena in tempo a pararmi di sotto che

lei, scavalcato il davanzale, mi cascò tra le braccia.

Era così pesante che quasi rotolammo in terra; ma ci

rialzammo e ci avviammo lungo la parete della villa,

sul marciapied­e. Lei mi disse piano: «Allora, Lionello,

sei proprio sicuro che vuoi sposarmi »; e io, più

per l’accento, tenero come non era mai stato, che

per le parole, caddi in ginocchio, là dove mi trovavo,

e le abbracciai le gambe premendo il viso contro la

tela grossa del camice. Sentii che lei mi accarezzav­a

il capo con una mano e, sebbene fossi commosso,

pensai con freddezza: «Ci siamo, è fatta». Proprio

in quel momento, invece, ecco squillare la suoneria

del campanello dentro la sua camera. Fosse stato il

più caro amante a chiamarla non avrebbe potuto

essere più pronta. «Presto, presto» disse: e mi respinse

che quasi caddi in terra; «presto... è lui che

mi chiama... presto, aiutami a rientrare». Quel maledetto

campanello continuava a squillare, lei corse

alla finestra, l’aiutai a risalire, scomparve. Di lì ad un

momento vidi, sulla facciata, illuminars­i la finestra

del malato, segno che Nella era già presso di lui; e,

allora, per la prima volta, provai il sentimento della

gelosia.

Quello che sia avvenuto quella notte, nella camera

di quel signore, non so; ma il giorno dopo, la mattina,

non si affacciò; né, dopo colazione, venne al solito

luogo dei nostri convegni, presso la fontana. Così

passarono tre o quattro giorni; e poi, un pomeriggio,

la vidi finalmente, ma non sola: camminava per lo

spiazzo, a fianco del malato, sorreggend­olo; lui, un

uomo di mezza età, biondiccio, pallido, molto alto,

in giubba da pigiama, si appoggiava a lei circondand­ole

le spalle con un braccio; e lei, amorevole e docile,

lo teneva per la vita e misurava il passo su quello

di lui. Rimasi attonito, vedendoli; poi come furono

scomparsi dietro l’angolo della villa, mi voltai verso

un cameriere che li osservava anche lui, dalla soglia

di casa, e lui mi fece un gesto come per dire: «Se la

intendono». Fingendomi indifferen­te, lo interrogai:

venni così a sapere che, addirittur­a, si parlava nella

villa che quel signore avesse intenzione di sposare

Nella. Dico la verità, non domandai altro: pensai che

era una donna come tante altre e che per lei il denaro

contava più dell’amore. Ho gli impulsi bruschi e

non ci penso più che tanto a prendere certe decisioni:

quel giorno stesso, feci il mio fagottino e me ne

andai dalla villa per non tornarci mai più.

Poi, per molto tempo, ogni volta che pensavo a

Nella, me la immaginavo moglie di quel signore,

nella villa, non più infermiera, ma padrona. Pensavo

pure che adesso non l’avrebbe più curato con

tanto amore se si fosse riammalato: vedova, avrebbe

raggiunto finalmente gli scopi per i quali si era

sposata. Ma qualche volta ci si sbaglia pensando

che soltanto l’interesse o il sentimento siano le due

cose che fanno vivere gli uomini. Ci sono persone

per le quali non valgono né interesse né sentimento

ma qualche altra ragione, tutta particolar­e, che loro

sono sole a conoscere. Nella era una di queste.

Un paio d’anni dopo mi presentai ad una villa sul

Gianicolo, dove mi avevano chiamato per sistemare

una serra di piante tropicali. Già mentre aspettavo

nell’atrio, notai non so che atmosfera di precauzion­e

e quasi di lutto: tutte le finestre chiuse, sussurri,

andirivien­i, odore di disinfetta­nte, rumori soffocati.

Poi, ad un tratto, la scorsi in cima alla scala, vestita

da infermiera, come l’avevo veduta l’ultima volta,

con il fazzoletto in capo, gli occhiali sul naso, un

vassoio tra le mani. Scendeva, e così non potei evitare

La rivide due anni dopo, in una villa al Gianicolo: non s’era sposata col suo malato come aveva creduto. «Anche questo s’è innamorato... poi ti dico». Ma lui rifiutò il lavoro e sparì

di incontrarl­a. Come mi fu vicina, si fermò e io

le dissi, tra triste e canzonator­io: «Sempre infermiera,

eh, Nella... ma non dovevi sposarti?». E lei, con

quell’aria placida e sorniona che già mi aveva fatto

perdere la testa, sorridendo : «Chi t’ha raccontato

questa bugia?... non te l’avevo detto che non volevo

sposarmi e volevo continuare a fare l’infermiera?».

Dissi: «La volpe e l’uva». Ci credereste? Lei mi guardò

un momento e poi scosse il capo e disse: «Lo sai

che anche questo qui si è innamorato di me?... ma

adesso non posso dirti tutto... se vieni a lavorare qui,

dopo parliamo... ho la finestra a pianterren­o che dà

sul giardino». Se ne andò, ma prima di andarsene,

mi lanciò un’occhiata come per dire: «Intesi, eh».

Pensai allora che forse appunto perché era così sana

e forte, dovesse provarci un suo gusto a far l’amore

con i malati. Ma io ero sano, purtroppo; e così, per

me, non c’era proprio alcuna speranza. Rinunziai lì

per lì a quel lavoro e, senza aspettare che mi chiamasser­o,

me ne andai in punta di piedi.

Rete Rossa,

Si può iniziare a conoscere il Pakistan dai numeri: 200 milioni di abitanti,

6 miliardi di dollari in arrivo

dal Fondo monetario internazio­nale

per evitare il collasso dell’economia,

150 testate atomiche che ne

fanno il sesto arsenale al mondo e

l’unica potenza nucleare musulmana,

73 anni di tensioni con l’arcinemica

India (da cui si è separato

dopo l’indipenden­za dall’ex colonia

britannica con la sanguinosa

“Partizione”), oltre 1.717 contagiati

(quelli dichiarati) dal virus che sta

fermando il mondo.

Si può partire da queste cifre

per inquadrare il Paese, ma per

catturarne l’anima occorre guardare

la sua gente dritto negli occhi:

una ragazzina che sbuca timida

 ??  ?? Lo scrittore romano (1907-1990) scrisse sul Corriere tra il 1945 e il 1990. Il suo ultimo articolo uscì 6 giorni
prima della morte
Lo scrittore romano (1907-1990) scrisse sul Corriere tra il 1945 e il 1990. Il suo ultimo articolo uscì 6 giorni prima della morte
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