TRASFORMARE UN MICIO IN UN BAMBOLOTTO DI PEZZA, NEL PERSONAGGIO DI UN FUMETTO O IN UN SUPEREROE NON È UN DANNO CHE FACCIAMO AL GATTO, MA A NOI STESSI. ATTRIBUENDOGLI TIC UMANI PERDIAMO LA SUA STRAORDINARIA FORZA, LA RESISTENZA ALLA DOMESTICAZIONE
e aperti sul mondo inducono un sentimento di affetto, di protezione, di grande empatia (i personaggi dei cartoni animati hanno occhi enormi per lo stesso motivo).
Sta probabilmente in questa ambiguità profonda – i gatti sono diavoli alieni o lattanti in cerca di affetto? – la causa del loro successo, e soprattutto della loro trasformazione in meme, pupazzi, fumetti e biglietti d’auguri. In altre parole, è come se in questo modo volessimo portare a termine la domesticazione interrotta, accelerarne i tempi, neutralizzare il selvatico che nonostante tutto sopravvive, e insomma sterilizzare gli aspetti che più possono disturbarci per ricreare un’immagine felina del tutto inoffensiva, e caricaturale. Si ride anche di ciò di cui si ha paura, e forse nel profluvio di gattini rosa c’è anche il residuo di un antico esorcismo, la risposta al terrore medievale di cui i nostri geni serbano ancora memoria.
Dal punto di vista del gatto, naturalmente, tutto ciò non ha alcun senso. Un gatto è un gatto: non sa di averci terrorizzato mille anni fa, non sa di farci sbellicare dalle risate oggi. E se pure lo sapesse, essendo un gatto, non se ne curerebbe neppure un po’. Ma questo è ovvio. Se però amiamo gli animali, è legittimo chiedersi se questi nostri bizzarri comportamenti abbiano o meno delle conseguenze. Sebbene anch’io pubblichi spesso le foto dei miei gatti (e dei miei
Sono i milioni di gatti domestici che vivono sul pianeta
L’anno in cui vennero scattate le prime fotografie in posa dei gatti cani), evito di farli apparire come cartoni animati: e il motivo è il rispetto. Ogni volta che qualche nostro amico viene a trovarci in campagna con i figli, la prima cosa che spiego ai ragazzini è che un animale non è un giocattolo o un pupazzo: è un individuo che pensa, si esprime e si comporta in modi diversi dai nostri, e come tale va capito e rispettato, proprio come ci sforziamo di capire e di rispettare una cultura diversa dalla nostra, ma non per questo inferiore.
Trasformare un micio in un bambolotto di pezza, nel personaggio di un fumetto o in un supereroe non è dunque un danno che facciamo al gatto, ma a noi stessi: perché attribuendogli azioni e tic e riflessi umani otteniamo sì un effetto irresistibilmente comico, ma finiamo col perdere proprio il gatto in sé, la sua straordinaria forza evocativa, la sua tenace e sottile resistenza alla domesticazione, l’indipendenza un poco selvaggia, e insomma quella radicale alterità che, alla fin fine, è il vero motivo per cui i gatti ci piacciono. Meglio dunque non esagerare nell’umanizzazione: ogni volta che compiamo in buona fede un passo in quella direzione, ci allontaniamo inesorabilmente dalla “gattità” e così rischiamo di perdere ciò che invece vorremmo celebrare e condividere. Lasciamo che i gatti siano gatti, e godiamoci lo spettacolo.