IL KILLER DEI BAMBINI BABYSITTER
Rapiti vicino a casa, tenuti prigionieri e poi violentati e strangolati: un assassino misterioso ha terrorizzato il Michigan alla fine degli anni Settanta. Un dettaglio: le vittime venivano abbandonate con i vestiti puliti, da qui il soprannome dato all’omicida
Gli inverni in Michigan sono freddissimi. L’acqua gela nelle tubature delle case e la neve si accumula copiosa ai bordi delle strade. Ma quelle rare volte in cui il cielo si apre e il sole risplende, il paesaggio diventa bellissimo. La mattina del 19 febbraio 1976 è una di quelle. Sono le 9.30 del mattino e l’aria frizzante e luminosa ha messo di buonumore Mark Boetigheimer, un impiegato che lavora in un complesso di uffici a Southfield, contea di Oakland, nell’area metropolitana di Detroit. L’uomo scende dall’auto fischiettando e si avvia verso l’ingresso di un palazzo a Oak Park, quando il suo sguardo cade su una macchia di colore che si staglia sopra il bianco di un cumulo di neve. Gli sembra un manichino perfettamente vestito con jeans, maglione rosso e un parka blu, sistemato disteso accanto a un cassonetto. Mark si avvicina per guardare meglio. Ed è in quel momento che realizza che non si tratta di un manichino: sul cumulo di neve, perfettamente sistemato, con le mani intrecciate sul petto, c’è il corpo di un bambino. Quattro giorni prima, il 15 febbraio, all’American Legion Hall di Ferndale un gruppo di ragazzini sta facen
do una partita a bigliardo. Tra loro c’è anche Mark Stebbins, un 12enne dai capelli rossi che verso mezzogiorno, stanco del gioco, dice al fratello che vuole rientrare a casa. Indossa il suo parka blu, saluta gli amici ed esce in strada. Alle 11 di sera però non è ancora rientrato. La madre terrorizzata chiama il 911 ma ha già un brutto presentimento. La polizia la rassicura: «A Ferndale non ci sono rapimenti da almeno 10 anni». Le ultimi, tristi parole famose: quattro giorni dopo, sul tavolo autoptico, il corpo di Mark è nelle mani del medico legale. Il bambino è stato soffocato, ma per la madre c’è un dettaglio che aggiunge orrore all’orrore: Mark è stato abusato sessualmente. Secondo l’autopsia, la morte è avvenuta solo poche ore prima del ritrovamento. Nei quattro giorni della sua scomparsa è stato dunque tenuto prigioniero, cosa confermata anche dai segni lasciati sui polsi da una corda. Chi lo ha rapito e ucciso gli ha lavato accuratamente il corpo e i vestiti prima di rimetterglieli e adagiarlo con le braccia incrociate sul cumulo di neve a Oak Park.
La finta tregua
Nei primi giorni, la morte di Mark riempie le prime pagine dei giornali locali, poi, lentamente scivola all’interno, fino a scomparire del tutto. Quando scoppia l’estate, gli abitanti della contea di Oakland tirano un sospiro di sollievo. L’assassino appare svanito come la neve che si è sciolta al sole. Ma è un’illusione. Il 22 dicembre 1976, la dodicenne Jill Robinson litiga con la madre perché non vuole aiutarla in cucina. La donna spazientita dice alla figlia di andarsene fuori, sotto il portico, a schiarirsi le idee. Queste parole tormenteranno la donna per il resto della sua vita. Jill infatti reagisce, come spesso accade agli adolescenti, in maniera eccessiva: sale in camera, mette dei vestiti in uno zaino e poi, in sella alla sua bicicletta, scappa di casa.
gli anni 70, come una città sicura, senza crimini violenti, oltre che ricca e prospera. Marian e Barry King l’hanno scelta anche per questo come luogo ideale dove crescere i loro quattro figli. Ora però che la contea è preda dell’isteria, anche loro sono preoccupati e non passa giorno in cui non ricordino ai loro ragazzi di stare attenti perché in giro c’è un assassino. Quando sono costretti a uscire, affidano i più piccoli alla figlia 17enne. Fanno così anche la sera del 16 marzo 1977, quando la coppia ha una cena di lavoro. Intorno alle 18.30 il figlio più piccolo, Timothy, di 11 anni, ottenuto il permesso dalla sorella di andare a comprare le caramelle, prende il suo skateboard e saluta per l’ultima volta i fratelli. Secondo alcuni testimoni, il bambino viene avvicinato nei pressi del negozio da un uomo bianco di 25-30 anni a bordo di una Amc Gremlin blu. È l’ultima volta che viene visto vivo. Nei giorni seguenti, i genitori pubblicano sul Detroit News una lettera al rapitore implorando la liberazione di Timothy. Nel testo dicono anche che il cibo preferito dal bambino è il Kentucky Fried Chicken. Un’informazione innocente che invece servirà al killer, che i giornali hanno appena battezzato con macabro sarcasmo “Babysitter”, per aggiungere un tassello al suo gioco morboso.
Come tutti ormai si aspettano, 6 giorni dopo la scomparsa Timothy viene ritrovato privo di vita in un fosso a 17 chilometri da casa. Ancora una volta, la vittima è stata scrupolosamente lavata e rivestita con gli abiti che indossava al momento della scomparsa. Accanto al corpo c’è anche lo skateboard. I genitori sono distrutti, il loro appello non ha impietosito l’assassino. «Gli avevamo detto di non accettare passaggi da sconosciuti», si sfogherà con alcuni giornalisti il padre. «Durante i sei giorni in cui è rimasto in vita, sono certo che sapeva cosa gli sarebbe successo». L’autopsia rivela che anche Timothy è stato soffocato poche ore prima del ritrovamento del suo cadavere. Su polsi e caviglie i soliti segni di corda. E anche lui come Mark Stebbins è stato aggredito sessualmente. Ma la scoperta più inquietante è che l’ultimo pasto di Timothy è stato un Kentucky Fried Chicken. L’assassino legge il Detroit News.
Uno psichiatra di Detroit ricevette la lettera di un uomo: dichiarava di aver conosciuto un veterano del Vietnam che aveva ucciso decine di bambini durante la guerra...
La confessione
Davanti a un imprendibile serial killer di bambini viene allora istituita una task force composta da 159 detective di diverse giurisdizioni. In 23 mesi di indagini verranno spesi più di 2 milioni di dollari. Inutilmente. Fino a quando uno psichiatra di Detroit, Bruce Danto, riceve una lettera sconclusionata da un uomo che si firma Allen e che denuncia il proprio compagno di stanza, un certo Frank, come il killer dei bambini. Allen spiega di aver conosciuto Frank in Vietnam: «Ha ucciso un sacco di bambini a quel tempo», scrive l’uomo, «e ha ricevuto medaglie per questo: li ha bruciati vivi e bombardati col napalm. Ora, vuole che la gente ricca come quella di Birmingham soffra come tutti i veterani di guerra dimenticati dall’America». Il giorno seguente lo psichiatra ricevette una telefonata di Allen che gli dà un appuntamento al quale però non si presenterà mai.
Per molti anni l’ombra di Babysitter, anche senza nuovi omicidi, terrà la contea di Oakland sotto sequestro, segnando profondamente la vita dei suoi abitanti. Tanto che la scrittrice Megan Abbott, quando dà alle stampe il suo quinto romanzo, The End of Everything, nemmeno si accorge che nel raccontare la storia del rapimento di una ragazzina sembra riportare in vita i fantasmi del passato. «Non sapevo nulla del serial killer», ha raccontato la scrittrice, «nonostante sia nata proprio lì nel 1971. Avevo solo 5 anni all’epoca, ma quando mi hanno fatto notare le somiglianze con la storia raccontata nel mio libro, improvvisamente ho capito da dove provenisse quella paura che ho sempre sentito dentro di me. Quel mostro ha cambiato tutti noi». Un mostro che è rimasto senza nome, nonostante le decine di sospetti per un caso che non è stato mai ufficialmente chiuso e costellato di colpi di scena. L’ultimo nel febbraio del 2019, quando il canale Investigation Discovery trasmette un documentario in cui viene rivelato che uno dei principali sospetti, Arch Edward Sloan, un uomo già condannato per reati sessuali su minori, non aveva superato il test del poligrafo nel 2010 e nel 2012. Nella sua auto erano stati trovati dei capelli che corrispondevano a quelli trovati su due delle vittime. Capelli che però non sono i suoi. Chi è salito su quell’auto? Sloan protegge qualcuno? La polizia ha messo a disposizione un numero di telefono dove denunciare anche anonimamente le frequentazioni di Sloan. Quel telefono finora non ha mai squillato.