Portai Chaplin da mia madre e davanti a lei tornò Charlot
Ero con lui nella mia Parma e pensai di presentarlo a mamma che da piccolo mi diceva: «È un santo per chi fa una vita come la nostra e ha poche ragioni per sorridere». A casa, lei non lo riconobbe ma lui prese il cappello di mio padre, poi un ombrello blu e...
Chaplin. M’è capitata anche questa, nella vita mia. Andar dietro, passo passo, a Charlot, arrivato in Italia, a Roma anzitutto, ovvio. Chissà chi gli aveva raccontato di Pasquino, delle "pasquinate". E nella piazza contro l’angolo smussato di Palazzo Braschi, fermo davanti al gruppo marmoreo, ripeteva di saperlo perché si chiamava Pasquino, così battezzato dal nome di un sarto gobbo e beffeggiatore, come sapeva delle "polizze" di contenuto satirico, che venivano affisse, quasi messe in bocca al mitico gobbo, che prendevano di mira persone o istituzioni pubbliche (il Papa, la Curia), o i costumi, ma spesso anche persone private, scadendo in maldicenza.
Durante il Conclave da cui uscì eletto Pio VIII, la statua fu sorvegliata a vista da guardie armate. Ne sapeva assai più di me, Charlot. Persino che l’ultima pasquinata coincise con la visita di Hitler a Roma, fra archi trionfali e facciate di cartapesta: «Povera Roma mia de travertino!/ T’hanno vestita tutta de cartone/ pe’ fatte rimirà da n’ imbianchino». Gliela recitai, puntellandomi col mio scarso inglese, e Chaplin rise, dicendo che sarebbe caduta a pennello – era il caso di dirlo – nel suo Il grande dittatore. Chaplin aveva fatto una rapida incursione in Italia. Non gli andava troppo di dirigere quel suo ultimo film, che poi diresse per obbligo. Al produttore, per il quale lavoravo come datore di idee, espresse il desiderio di disporre di una guida per conoscere alcune delle nostre città. Nominò anche Parma. Il produttore mi convocò per ordinarmi, brusco e sarcastico come sempre: «Vai tu. Sei di Parma, no?». Prima di uscire dall’ufficio, trovai il fiato per dire: «Il genio preferirebbe fare Pasquino». Fui inseguito da un urlo: «Fuori dai piedi. Anche tu!».
In macchina, parlai del Duomo e del Battistero della mia città. Insinuai anche che un pittore come il Parmigianino, con La schiava turca, era considerato il simbolo del sorriso. Ci ritrovammo nel Duomo, di fronte alla Deposizione dell’Antelami. Un raggio di sole filtrava da una finestrella, come da un punto irreale, e accarezzava il volto del Cristo. Sotto i miei occhi: Charlot e il Cristo. Charlot rapito al cospetto del Cristo scolpito in una delle massime raffigurazioni del suo dolore umano. Chaplin abbracciava ansiosamente con lo sguardo l’umanità ai piedi della croce, ammassata, buia, nell’invocazione e nella pietà.
Lentamente, su quel groviglio di forme oscure e dolenti, il raggio di sole si diffuse con il fuggire delle nuvole, facendo risplendere il bassorilievo, fino all’esultanza della luce. Mai dimenticherò il volto di Charlot nel riflesso di quel sole che sembrava rendere omaggio allo spirito terreno di un genio, avvolgendolo nella sua potenza – il sorriso di Charlot che ne veniva inghiottito...
Uscendo dal Duomo mi venne un’idea. Feci strada verso casa mia, che si trovava nelle vicinanze. Mia madre mi aveva portato, da piccolo, alle prime comiche, e indicandomi Charlot col bastoncino mi aveva ripetuto: «Quell’omino lì, lo vedi? Quello, a suo modo, è come un santo, per chi fa una vita dura come la nostra, e ha poche ragioni per sorridere». E ora Charlot saliva le scale di casa... Mia madre rimase lì, a bocca aperta, dapprima senza riconoscere il grande interprete. Era a disagio perché le avevo introdotto in casa un estraneo, senza averla preavvertita. Muoveva le mani per aggiustarsi il vestito peggiore, che indossava quando nessuno la vedeva, e mi rimproverava con gli occhi. Rimasi in silenzio, a seguire i vari movimenti del suo imbarazzo. Charlot le accarezzò una guancia, girò un’occhiata per la cucina, vide il cappello di mio padre, appeso al gancio, e se lo mise in testa. Notò l’ombrello blu che mia madre legava con cura rincasando dalla pioggia, e lo afferrò, facendolo volteggiare con l’abilità di un prestigiatore. Improvvisò alcune delle sue mosse. Allora a mia madre fu chiaro. E ritornò in lei la familiarità immediata che sempre ha avuto con le sorprese della vita, sia allegre che drammatiche.
Se fosse viva le direi: «Non ci siamo mai meravigliati troppo, qualunque cosa ci accadesse, vero, madre mia? Questo, solo questo, è stato il bello fra noi».