RUSSO IERVOLINO
delle cinque coppie dell’Assemblea costituente. Un’altra era composta da Rita Montagnana e dal marito Palmiro Togliatti, prima che questi si mettesse con Nilde Iotti; e poi c’erano altri due comunisti, Nadia e Velio Spano. Sono figlia di due parlamentari della Dc e nipote di un senatore della Südtiroler Volkspartei, zio Guido De Unterrichter, fratello di mamma. Per anni, assieme alle famiglie di tanti altri eletti all’Assemblea Costituente e parlamentari delle prime legislature, non potevamo permetterci neanche una casa in affitto. Non si sorprenda, succedeva a tutti. L’Assemblea costituente era composta da persone che erano state vessate, anche professionalmente, durante il ventennio precedente. Mio papà Angelo, antifascista figlio di una famiglia poverissima, era stato espulso dall’ordine degli avvocati. Non avevamo niente».
Di Rosa Russo Iervolino sorprendono tante cose. Una è che chiami i genitori «mamma» e «papà», anche se li ha persi da tantissimo tempo. Come se Angelo Raffaele Jervolino (la «I» del cognome della figlia è stato un errore dell’anagrafe) e Maria De Unterrichter fossero ancora qua con lei. Non cede all’uso comune di riferirsi a «mia madre» e «mio padre», come si fa quando le persone sono scomparse. No, «mamma» e «papà». Esponente di primo piano della Dc, più volte ministro, prima donna alla guida del ministero dell’Interno, prima sindaca della città di Napoli, «Rosetta» – il soprannome valeva tanto per gli amici quanto per i detrattori – voterà No al referendum per il taglio dei parlamentari. Sarebbe come votare contro la sua stessa esistenza, in fondo.
C’è una certa pubblicistica, diciamo così, che accosta pericolosamente la parola «parlamentare» a «malaffare».
«Ho un’altra storia da raccontare, se permette. Anche personale. Mio marito è morto che non avevo neanche cinquant’anni. Tre figli piccoli da crescere, il lavoro da parlamentare svolto con responsabilità, a volte mancava il tempo
Democristiana, più volte ministro, è stata la prima sindaca di Napoli: «Mio marito è morto che non avevo neanche cinquant’anni, avevo tre figli piccoli. Le colleghe del Pci mi tenevano i bambini e mi compravano qualcosa al mercato»
per fare le cose più semplici. Penso a colleghe con cui dividevamo tutto tranne le idee politiche e l’appartenenza allo stesso schieramento, alla stessa maggioranza. Mi vengono in mente Nadia Spano o Giglia Tedesco».
Lei democristiana, loro comuniste.
«Faticherei a contare le volte che ci siamo soccorse a vicenda nei lavori di aula o delle commissioni. E anche quelle in cui, per non perdere una seduta o un voto, ho chiesto loro di tenermi i bambini o di comprarmi qualcosa al mercato. Ho conosciuto in Parlamento decine e decine di persone che vivevano con poco, com’ero stata abituata a fare anch’io».
Lei non è mai stata sfiorata da una vicenda giudiziaria. Possibile però che non avesse avvertito la portata di Tangentopoli?
«Quando si sposò mia figlia, le sorelle Fontana le confezionarono un abito molto sobrio, come sobrio sarebbe stato anche il ricevimento. Al matrimonio della figlia di un esponente del mio partito, di cui non farò mai il nome, mia figlia mi chiese: “Mamma ma perché qua c’è tutto questo sfarzo e al mio matrimonio no?”».
La risposta sarebbe arrivata con Mani Pulite.
«Una delle risposte, sì. Anche se mai avrei immaginato un fenomeno di quelle dimensioni».
Al suo, di matrimonio, il testimone era stato Aldo Moro.
«Moro telefonò a mio papà poco prima che partissimo per la chiesa di San Saba, a Roma. “Angelo, io sto per prepararmi. Devo mettermi il tight? Tu come sei vestito?”. Papà gli rispose che sarebbe stato sufficiente un vestito normale, giacca e cravatta. Arriviamo in chiesa e qualcuno inizia a fare strani gesti, come a chiedermi di non entrare. “Moro non è ancora arrivato”. Mio papà, che l’aveva sentito da poco, tranquillizza tutti, “Aldo sta arrivando, questione di pochi minuti”. Passano cinque minuti, dieci, venti, mezz’ora, Moro non si vede. Ricordo una certa preoccupazione diffusa, mio marito che aveva perso la pazienza. Sa, all’epoca non c’erano i celtai lulari… Dopo un’ora arriva Moro, trafelato. La moglie Noretta gli aveva detto che le nozze erano a Santa Sabina, lui aveva atteso là l’arrivo degli sposi, che però erano altri sposi».
La grande amicizia con i Moro non bastò a farla diventare morotea. Come mai?
«Moro aveva raccolto anche da mio papà il testimone alla guida della Fuci, la federazione degli universitari cattolici. Entrambi allievi del cardinale Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo VI. C’era un legame analogo anche tra mia mamma e la signora Noretta, la moglie di Moro. L’una presidente dell’Opera nazionale Montessori, l’altra responsabile dei centri educativi a Roma. L’ultima volta che parlai da sola con Moro fu al mio matrimonio. Per me era troppo, come dire, intellettuale; gli preferivo Amintore Fanfani, un politico secondo me più vicino alla gente comune. E divenfanfaniana».
Partecipò attivamente alle campagne referendarie contro divorzio e aborto?
«Assolutamente sì, con convinzione».
Avesse di nuovo davanti quelle due schede elettorali oggi?
«Sono sincera. Le mie convinzioni sull’aborto non sono mutate. Quelle sul divorzio sì: le mie certezze di allora, cambiati i tempi, non sono più le stesse».
Abbiamo parlato degli amici. Non possiamo non parlare dei nemici. Le faccio un nome: Ciriaco De Mita.
«Guardi, la vita e la politica sono strane, a volte. È vero, da fanfaniana e forlaniana non ero mai stata amica di De Mita, anzi. Eppure se sono diventata ministra lo devo a De Mita, che mi volle nel suo governo, agli Affari sociali. Lasciandomi anche grandi margini di manovra e grande autonomia, devo riconoscerlo».
sono stati aggiunti degli specchi; come se ciascuna visitatrice, riflettendo il proprio volto, potesse prima o poi diventare la prima a ricoprire quegli incarichi. Ecco, non mi ci sono specchiata». Dopo due mandati da sindaca di Napoli si è ritirata.
«Non mi sono ritirata. Ho continuato a fare politica senza avere un ruolo istituzionale, che è ben diverso. Altro insegnamento di mamma e papà: non si deve rimanere incollati a vita a un incarico. Adesso sto molto con i miei nipoti, divisi tra Roma e Bruxelles». Era stata una pianista in erba, da ragazza.
«Ho studiato pianoforte per parecchi anni, poi ho dovuto abbandonare. I figli e la politica assorbivano così tanto la mia esistenza da costringermi a fare una scelta». Tornasse indietro?
«Messa di nuovo di fronte alla stessa scelta, tra il pianoforte e la politica sceglierei nuovamente la politica. Non è un caso se io vivo e risiedo stabilmente a Roma mentre il pianoforte è rimasto nella casa di Napoli».
Quando vede Virginia Raggi e Chiara Appendino guidare non senza difficoltà due grandi città, prova un moto di solidarietà per quello che ha visto e vissuto nei suoi anni da sindaca di Napoli? Oppure si concentra sulle differenze tra lei e loro?
«Ho un moto di solidarietà nei loro confronti, come ce l’ho nei confronti della ministra Azzolina chiamata al compito gravoso di riaprire le scuole durante una pandemia. Non trascuro le differenze di idee che ci sono tra me e loro, certo. Ma capisco quello che si prova a fare un lavoro che quando le cose vanno male, dalle più piccole alle più grandi, la colpa è sempre e solo tua».