«VI RACCONTO SAN VITTORE CHE È UN PEZZO DI MILANO IO ORA SOFFRO DI CARCERITE»
La famiglia di Giacinto Siciliano sta in galera da tre generazioni. Lui, leccese di 54 anni, dirige San Vittore a Milano come fece il padre negli anni di piombo. Suo nonno fu comandante degli agenti di custodia in diversi istituti di pena. Non le bastava essere cresciuto nell’alloggio di servizio di un istituto di pena, doveva fare anche lei il direttore?
«Pensi che è stato un caso. A 28 anni partecipai al concorso convinto da un’amica e lo vinsi. Forse ero un predestinato».
Ed ora?
«Soffro di carcerite».
Che malattia è?
«Quella che ti prende quando vivi il carcere dall’interno».
Una missione?
«Un lavoro, e una passione». Qual è la prima cosa che ha imparato da bambino in carcere?
«Il rispetto delle regole».
Ciò che per lei è una scelta, ai detenuti va imposto con le sbarre?
«Secondo me no. Un tempo ero convinto che le regole si potessero imporre. Certo, è un meccanismo che può funzionare, però poi ti accorgi che le persone rispettano le regole finché gli stai addosso, ma non vedono l’ora di scappare quando ti volti. La sfida è trovare il modo che scelgano di mettersi dalla parte dello Stato perché alla fine il 90 % delle persone esce dal carcere».
Cioè?
«Tranne che per pochi ergastolani, la pena prima o poi finisce.
Quindi, bisogna fare in modo di sfruttare il tempo in carcere affinché la persona capisca che le regole vanno rispettate a prescindere dal fatto che qualcuno impone di farlo».
Se tutti lo facessero le carceri sarebbero inutili. Invece non è così.
«Non bisogna pretendere di eliminare la devianza, ma avere l’obiettivo di lavorare su chi sta in dentro».
Il carcere è comunque mura e sbarre. Nel suo libro, Di cuore e di coraggio (Rizzoli) lei stesso scrive che «è brutto» e «non c’è nulla che possa farlo diventare bello».
«È sbagliato pensare che si possa trasformare il carcere in una cosa bella, però sono convinto che la bellezza sia un modo di pensare. Devi portare le persone a pensare e a guardare al bello se vuoi che vedano il bello che è in loro».
Infatti, scrive che chiunque «ha in sé una parte buona» e che «non bisogna guardare all’efferatezza del crimine commesso». Un po’ buonista?
«Assolutamente no. Nessuno dimentica ciò che il detenuto ha fatto. Bisogna capire come far sì che quando torna libero si comporti nel miglior modo possibile. Molti detenuti hanno paura della scarcerazione perché temono di rientrare in cella. Possiamo fare il miglior lavoro del mondo sul detenuto, ma se poi fuori non gli trovo una casa dove andare, chi lo segue e chi gli dà un lavoro c’è il rischio concreto che torni a rivolgersi alla criminalità».
C’è chi dice: nessuna indulgenza. Gettare via al chiave.
«Dopo 27 anni di lavoro posso dire che i cambiamenti ci sono quando al detenuto si dà una possibilità. Se accetta, provi a portarlo da qualche parte. Al reato ci deve essere una risposta giusta in termini di pena che, però, da sola non basta perché, come dice la Costituzione, essa deve tendere al reinserimento del condannato nella società. Lo Stato non è vendetta, è costruzione».
I politici conoscono i problemi del carcere?
«Forse manca un’idea seria di cosa sia. Non può essere lo stesso per i mafiosi, i detenuti normali e per gli extracomunitari. Forse bisogna fare delle scelte».
Lei vive sotto scorta, negli ultimi anni per le minacce di Totò Riina (il processo è finito a causa della morte del boss) per la sua gestione del carcere di Opera. Suo padre fu scortato per il pericolo di un attentato terroristico. Come convive con il rischio?
«Lavorare in carcere significa anche sapere che rischi, ma non bisogna farsi schiacciare dalla paura». Scrive che un direttore deve conoscere ogni angolo del carcere. Troppa familiarità può pregiudicare la freddezza nelle decisioni?
«Essere presente, avvicinarsi non vuol dire perdere l’obiettività. Questo è un mondo complesso che non può essere controllato da dietro una scrivania. Il direttore deve dare risposte chiare, positive o negative che siano, senza incertezze. Il che non vuol dire accentrate tutto su di sé perché la gestione si fa con un gioco di squadra tra direttore, agenti e operatori».
Dal 2003 al 2007 ha diretto il carcere di Sulmona (L’Aquila). Era il carcere dei suicidi, come quello della direttrice Armida Misere che lei fu chiamato a sostituire.
«Ero amico di Armida, e questo inizialmente ha pesato emotivamente. Si verificarono una serie di suicidi che finirono all’attenzione dei media, anche se alla fine il numero era nella triste media degli altri istituti. Nella mia vita penitenziaria ho visto tante volte morire persone che conoscevo nonostante avessi lavorato tanto per evitare che accadesse. A Sulmona, carcere ad alta sicurezza con molti reclusi appartenenti ad organizzazioni mafiose, si innestò anche un meccanismo perverso al quale bisognava dare una risposta forte. C’erano parecchi detenuti che per ottenere qualunque cosa facevano finta di suicidarsi, forse dopo essere stati spinti da altri detenuti problematici. Trasferiti i secondi e proseguite iniziative che coinvolgevano quelli che rimanevano, la situazione migliorò».
Poi fu mandato ad Opera dove al regime duro c’erano boss del calibro di Riina, Gangi, Graziano, Spera. Gestione impegnativa?
«Non particolarmente perché sul 41 bis c’è una normativa precisa. Ad esempio, ogni volta che il direttore incontra un detenuto anche per le contestazioni e le sanzioni disciplinari lo fa sempre alla presenza di personale di polizia penitenziaria. Tutto viene annotato e comunicato al Dipartimento e alla magistratura nella massima trasparenza».
Dal 2017 è a San Vittore. Perché dice che è un carcere speciale?
«Ha un fascino particolare dovuto alla sua storia. La città lo sente come una propria parte».
Vuole portarci la bellezza. Come?
«Migliorando la struttura, come si è già cominciato a fare».
Il 9 marzo scorso c’è stata una rivolta legata alla paura del coronavirus.
«Sarebbe potuto succedere di tutto, invece grazie a Dio nessuno si è fatto male. Dopo la rivolta, tutti, detenuti compresi, abbiamo lavorato per evitare che a causa di quello che era accaduto il virus si espandesse. Alla fine i contagiati sono stati una ventina, una sessantina se si includono quelli arrivati con il virus da altri istituti».
Lei è finito con altri sotto processo a Roma per falso e mancata comunicazione all’autorità giudiziaria. Per l’accusa, informazioni dei detenuti mafiosi sarebbero arrivate ai servizi segreti senza informare la magistratura in base ad un presunto “Protocollo farfalla” tra Dap e servizi. Il processo si è concluso nel 2015 con una prescrizione alla quale lei non ha rinunciato, pur essendosi sempre dichiarato innocente. Perché?
«È stata una vicenda traumatica finita con una sentenza che, di fatto, non ha accertato responsabilità. Quando il giudice ha chiuso il processo non ho potuto trattenere le lacrime di rabbia perché non era così che volevo finisse. Ero sicuro di poter dimostrare che non avevo nulla a che fare con quei fatti, ma dopo otto anni di indagini e udienze che hanno modificato la vita mia e della mia famiglia, davanti alla prospettiva di altri anni nelle aule di giustizia con la pressione mediatica come quella subita fino ad allora e di altre spese ingentissime, mi sentivo sfiancato. Avevo bisogno di mettere la parola fine. Chiudendo il processo il presidente della Corte disse: “Sarà la Storia
Il direttore Siciliano ripercorre i suoi 27 anni nelle carceri in (Rizzoli). «So cosa significa essere imputato. Quando il giudice ha chiuso il mio processo, non ho potuto trattenere le lacrime di rabbia»
con la S maiuscola a fare giustizia, perché la giustizia non sempre è quella amministrata dagli uomini”. Nel libro spiego cosa significhi per un servitore dello Stato essere imputato. Io ho la coscienza a posto».
Perché ha scritto un libro?
«Faccio un lavoro difficile e bellissimo. Sono direttore ma sono innanzitutto uomo e padre. Spesso sono costretto a nascondere le mie emozioni in un contesto in cui bisogna essere freddi e imparziali. Ho deciso di fermarmi, guardarmi indietro, raccogliere ricordi e pensieri per raccontare il mondo del carcere dall’interno. L’ho scritto per i miei figli che, giovanissimi, leggevano che il padre era sotto processo, ma forse l’ho scritto anche per me stesso».