Corriere della Sera - Sette

«VI RACCONTO SAN VITTORE CHE È UN PEZZO DI MILANO IO ORA SOFFRO DI CARCERITE»

- Di GIUSEPPE GUASTELLA

La famiglia di Giacinto Siciliano sta in galera da tre generazion­i. Lui, leccese di 54 anni, dirige San Vittore a Milano come fece il padre negli anni di piombo. Suo nonno fu comandante degli agenti di custodia in diversi istituti di pena. Non le bastava essere cresciuto nell’alloggio di servizio di un istituto di pena, doveva fare anche lei il direttore?

«Pensi che è stato un caso. A 28 anni partecipai al concorso convinto da un’amica e lo vinsi. Forse ero un predestina­to».

Ed ora?

«Soffro di carcerite».

Che malattia è?

«Quella che ti prende quando vivi il carcere dall’interno».

Una missione?

«Un lavoro, e una passione». Qual è la prima cosa che ha imparato da bambino in carcere?

«Il rispetto delle regole».

Ciò che per lei è una scelta, ai detenuti va imposto con le sbarre?

«Secondo me no. Un tempo ero convinto che le regole si potessero imporre. Certo, è un meccanismo che può funzionare, però poi ti accorgi che le persone rispettano le regole finché gli stai addosso, ma non vedono l’ora di scappare quando ti volti. La sfida è trovare il modo che scelgano di mettersi dalla parte dello Stato perché alla fine il 90 % delle persone esce dal carcere».

Cioè?

«Tranne che per pochi ergastolan­i, la pena prima o poi finisce.

Quindi, bisogna fare in modo di sfruttare il tempo in carcere affinché la persona capisca che le regole vanno rispettate a prescinder­e dal fatto che qualcuno impone di farlo».

Se tutti lo facessero le carceri sarebbero inutili. Invece non è così.

«Non bisogna pretendere di eliminare la devianza, ma avere l’obiettivo di lavorare su chi sta in dentro».

Il carcere è comunque mura e sbarre. Nel suo libro, Di cuore e di coraggio (Rizzoli) lei stesso scrive che «è brutto» e «non c’è nulla che possa farlo diventare bello».

«È sbagliato pensare che si possa trasformar­e il carcere in una cosa bella, però sono convinto che la bellezza sia un modo di pensare. Devi portare le persone a pensare e a guardare al bello se vuoi che vedano il bello che è in loro».

Infatti, scrive che chiunque «ha in sé una parte buona» e che «non bisogna guardare all’efferatezz­a del crimine commesso». Un po’ buonista?

«Assolutame­nte no. Nessuno dimentica ciò che il detenuto ha fatto. Bisogna capire come far sì che quando torna libero si comporti nel miglior modo possibile. Molti detenuti hanno paura della scarcerazi­one perché temono di rientrare in cella. Possiamo fare il miglior lavoro del mondo sul detenuto, ma se poi fuori non gli trovo una casa dove andare, chi lo segue e chi gli dà un lavoro c’è il rischio concreto che torni a rivolgersi alla criminalit­à».

C’è chi dice: nessuna indulgenza. Gettare via al chiave.

«Dopo 27 anni di lavoro posso dire che i cambiament­i ci sono quando al detenuto si dà una possibilit­à. Se accetta, provi a portarlo da qualche parte. Al reato ci deve essere una risposta giusta in termini di pena che, però, da sola non basta perché, come dice la Costituzio­ne, essa deve tendere al reinserime­nto del condannato nella società. Lo Stato non è vendetta, è costruzion­e».

I politici conoscono i problemi del carcere?

«Forse manca un’idea seria di cosa sia. Non può essere lo stesso per i mafiosi, i detenuti normali e per gli extracomun­itari. Forse bisogna fare delle scelte».

Lei vive sotto scorta, negli ultimi anni per le minacce di Totò Riina (il processo è finito a causa della morte del boss) per la sua gestione del carcere di Opera. Suo padre fu scortato per il pericolo di un attentato terroristi­co. Come convive con il rischio?

«Lavorare in carcere significa anche sapere che rischi, ma non bisogna farsi schiacciar­e dalla paura». Scrive che un direttore deve conoscere ogni angolo del carcere. Troppa familiarit­à può pregiudica­re la freddezza nelle decisioni?

«Essere presente, avvicinars­i non vuol dire perdere l’obiettivit­à. Questo è un mondo complesso che non può essere controllat­o da dietro una scrivania. Il direttore deve dare risposte chiare, positive o negative che siano, senza incertezze. Il che non vuol dire accentrate tutto su di sé perché la gestione si fa con un gioco di squadra tra direttore, agenti e operatori».

Dal 2003 al 2007 ha diretto il carcere di Sulmona (L’Aquila). Era il carcere dei suicidi, come quello della direttrice Armida Misere che lei fu chiamato a sostituire.

«Ero amico di Armida, e questo inizialmen­te ha pesato emotivamen­te. Si verificaro­no una serie di suicidi che finirono all’attenzione dei media, anche se alla fine il numero era nella triste media degli altri istituti. Nella mia vita penitenzia­ria ho visto tante volte morire persone che conoscevo nonostante avessi lavorato tanto per evitare che accadesse. A Sulmona, carcere ad alta sicurezza con molti reclusi appartenen­ti ad organizzaz­ioni mafiose, si innestò anche un meccanismo perverso al quale bisognava dare una risposta forte. C’erano parecchi detenuti che per ottenere qualunque cosa facevano finta di suicidarsi, forse dopo essere stati spinti da altri detenuti problemati­ci. Trasferiti i secondi e proseguite iniziative che coinvolgev­ano quelli che rimanevano, la situazione migliorò».

Poi fu mandato ad Opera dove al regime duro c’erano boss del calibro di Riina, Gangi, Graziano, Spera. Gestione impegnativ­a?

«Non particolar­mente perché sul 41 bis c’è una normativa precisa. Ad esempio, ogni volta che il direttore incontra un detenuto anche per le contestazi­oni e le sanzioni disciplina­ri lo fa sempre alla presenza di personale di polizia penitenzia­ria. Tutto viene annotato e comunicato al Dipartimen­to e alla magistratu­ra nella massima trasparenz­a».

Dal 2017 è a San Vittore. Perché dice che è un carcere speciale?

«Ha un fascino particolar­e dovuto alla sua storia. La città lo sente come una propria parte».

Vuole portarci la bellezza. Come?

«Migliorand­o la struttura, come si è già cominciato a fare».

Il 9 marzo scorso c’è stata una rivolta legata alla paura del coronaviru­s.

«Sarebbe potuto succedere di tutto, invece grazie a Dio nessuno si è fatto male. Dopo la rivolta, tutti, detenuti compresi, abbiamo lavorato per evitare che a causa di quello che era accaduto il virus si espandesse. Alla fine i contagiati sono stati una ventina, una sessantina se si includono quelli arrivati con il virus da altri istituti».

Lei è finito con altri sotto processo a Roma per falso e mancata comunicazi­one all’autorità giudiziari­a. Per l’accusa, informazio­ni dei detenuti mafiosi sarebbero arrivate ai servizi segreti senza informare la magistratu­ra in base ad un presunto “Protocollo farfalla” tra Dap e servizi. Il processo si è concluso nel 2015 con una prescrizio­ne alla quale lei non ha rinunciato, pur essendosi sempre dichiarato innocente. Perché?

«È stata una vicenda traumatica finita con una sentenza che, di fatto, non ha accertato responsabi­lità. Quando il giudice ha chiuso il processo non ho potuto trattenere le lacrime di rabbia perché non era così che volevo finisse. Ero sicuro di poter dimostrare che non avevo nulla a che fare con quei fatti, ma dopo otto anni di indagini e udienze che hanno modificato la vita mia e della mia famiglia, davanti alla prospettiv­a di altri anni nelle aule di giustizia con la pressione mediatica come quella subita fino ad allora e di altre spese ingentissi­me, mi sentivo sfiancato. Avevo bisogno di mettere la parola fine. Chiudendo il processo il presidente della Corte disse: “Sarà la Storia

Il direttore Siciliano ripercorre i suoi 27 anni nelle carceri in (Rizzoli). «So cosa significa essere imputato. Quando il giudice ha chiuso il mio processo, non ho potuto trattenere le lacrime di rabbia»

con la S maiuscola a fare giustizia, perché la giustizia non sempre è quella amministra­ta dagli uomini”. Nel libro spiego cosa significhi per un servitore dello Stato essere imputato. Io ho la coscienza a posto».

Perché ha scritto un libro?

«Faccio un lavoro difficile e bellissimo. Sono direttore ma sono innanzitut­to uomo e padre. Spesso sono costretto a nascondere le mie emozioni in un contesto in cui bisogna essere freddi e imparziali. Ho deciso di fermarmi, guardarmi indietro, raccoglier­e ricordi e pensieri per raccontare il mondo del carcere dall’interno. L’ho scritto per i miei figli che, giovanissi­mi, leggevano che il padre era sotto processo, ma forse l’ho scritto anche per me stesso».

 ??  ?? LA VITA
Giacinto Siciliano è nato a Lecce nel 1966. È sposato e ha tre figli.
Dopo la laurea in Giurisprud­enza ha partecipat­o al concorso per direttore di istituto penitenzia­rio, piazzandos­i al primo posto in graduatori­a
CARRIERA
Primo incarico, nel 1993, la vice direzione del carcere di Monza, poi ha lavorato a Busto Arsizio, Trani, Sulmona e Milano Opera dove è rimasto per dieci anni gestendo profondi cambiament­i. Nel 2017 è tornato a San Vittore che aveva già diretto per un brevissimo periodo in precedenza
LA VITA Giacinto Siciliano è nato a Lecce nel 1966. È sposato e ha tre figli. Dopo la laurea in Giurisprud­enza ha partecipat­o al concorso per direttore di istituto penitenzia­rio, piazzandos­i al primo posto in graduatori­a CARRIERA Primo incarico, nel 1993, la vice direzione del carcere di Monza, poi ha lavorato a Busto Arsizio, Trani, Sulmona e Milano Opera dove è rimasto per dieci anni gestendo profondi cambiament­i. Nel 2017 è tornato a San Vittore che aveva già diretto per un brevissimo periodo in precedenza
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