SMETTO QUANDO VOGLIO IL DILEMMA DEI SOCIAL
Pensateci. I tre puntini di sospensione che suggeriscono che la persona con cui stiamo chattando (o che abbiamo appena taggato in una foto o in un post) sta scrivendo qualcosa sono stati aggiunti per un motivo: ci rendono più difficile riporre lo smartphone e ci portano a continuare a fissarlo. Intanto, da qualche parte Oltreoceano, qualcuno si sfrega le mani perché ha raggiunto il proprio scopo: aumentare il tempo a disposizione per mostrarci messaggi pubblicitari e acquisire nuove informazioni su quello che ci interessa e potrà interessarci in futuro.
The Social Dilemma, documentario disponibile su Netflix da qualche settimana, ci (ri)sbatte in faccia questo e altri meccanismi con brutalità e una certa teatralità, partendo dall’assunto che «se il servizio è gratis, il prodotto sei tu» e domandandosi come tutto questo stia cambiando i nostri comportamenti e dunque la società. Niente che non sapessimo o intuissimo già. La novità è che il regista Jeff Orlowski ce lo fa spiegare da alcuni fra i giovani signori, e da poche giovani signore, che hanno progettato Facebook, Pinterest, Instagram e altre piattaforme. E si sono pentiti. «Eravamo partiti con altre intenzioni, poi la situazione ci è sfuggita di mano».
Tristan Harris è il più incisivo: a Stanford ha studiato etica della persuasione, in Google ha co-inventato la posta elettronica Gmail e se n’è andato dopo aver tentato senza successo di convincere i suoi colleghi e i suoi capi ad assumersi la responsabilità di quello che stavano facendo: spingere l’umanità a diventare schiava di uno schermo portatile. «Se ti guardi intorno, hai la sensazione che il mondo stia impazzendo. Viene da chiedersi: è normale? O siamo tutti vittime di un incantesimo?». Orlowski ha messo Harris su una sedia, ha lasciato che argomentasse le sue preoccupazioni, inframmezzando la sua e le altre voci con una mini fiction girata in una casa americana allo scopo di evidenziare gli effetti dannosi dei social su due ragazzini. Lei, vittima del costante confronto con le coetanee e della ricerca del consenso su Instagram. Il fratello che si perde su YouTube nel turbine del sensazionalismo e delle fake news, che cavalcano la predilezione dell’algoritmo per i contenuti divisivi e polarizzanti.
UN DOCUMENTARIO DI NETFLIX INTERVISTA I PROGETTISTI DELLA RETE (PENTITI): «SE IL SERVIZIO È GRATIS, IL PRODOTTO SEI TU»
The Social Dilemma non è perfetto o esaustivo. È un documentario divulgativo, prodotto e diffuso da una piattaforma che — al pari delle altre piattaforme di cui racconta — lotta per ottenere la nostra attenzione proponendo contenuti a noi affini ed è inevitabile che amplifichi alcuni concetti e semplifichi altri passaggi. Vengono citati per esempio i dati sull’aumento degli atti di autolesionismo e dei suicidi fra i giovanissimi americani dal 2009, quando i social sono sbarcati sui telefonini, senza però soffermarsi su ulteriori elementi potenzialmente scatenanti, come la disoccupazione dei genitori e l’incertezza economica. Così populismo, radicalizzazione e tensioni sociali: fenomeni che non si possono attribuire solamente alla selezione distorta dei contenuti fatta dagli algoritmi di una manciata di piattaforme. Inoltre, come ha scritto il giornalista americano Casey Newton, alcuni fra i più spietati killer di estrema destra — dall’attentatore di Christchurch al terrorista norvegese Anders Breivik — hanno trovato terreno fertile su siti come 8chan, che hanno logiche diverse dal solo profitto.
Tutto questo non rende The Social Dilemma meno efficace, al contrario. Se bastasse cancellare i profili di Facebook e Instagram e smettere di visitare YouTube, come consiglia l’informatico e saggista Jaron Lanier (che nel documentario pronuncia una delle frasi più interessanti: «Il prodotto non siamo noi, è la possibilità che le piattaforme hanno di cambiare il nostro comportamento»), probabilmente troveremmo il coraggio di farlo. Ma non è così semplice, il ricco mercato basato sulla corsa alla nostra attenzione e sull’invadenza delle notifiche e delle raccomandazioni (pensate a quando lo smartphone vi chiede di acquistare un aumento dello spazio in cloud che neanche sapevate di avere a disposizione) è largo, variegato e fornisce servizi che ormai sono diventati ineludibili. I legislatori sanno che servono nuove norme, ma fino ad ora è stata un’eterna rincorsa: l’innovazione va troppo veloce e mettere i paletti è un’operazione complicata, non bisogna ledere i diritti, a partire dalla libertà d’espressione. Ci vorrà altro tempo.
E noi? The Social Dilemma ci spinge ad adottare piccole ma sostanziali buone abitudini: ad esempio limitare il più possibile le notifiche o informarsi e navigare in modo proattivo, cioè scegliendo le fonti e prendendosi il tempo giusto per consultarle senza limitarsi a seguire il flusso di contenuti raccomandati dall’algoritmo. Ricominciare a scegliere cosa ci piace, quando vogliamo vederlo o comprarlo, cosa non ci interessa e con cosa non vogliamo metterci in competizione basterà a svegliarci dall’incantesimo di cui parla Harris? In realtà, la vera domanda è: abbiamo ancora il tempo, la forza e lo spazio di fermarci, pensare, scegliere, selezionare, scartare? Prima dei social network, è stato l’iPhone a cambiare tutto, nel 2007: potente, facile, divertente. Un gioco per adulti. Se la partita l’abbiamo persa, tredici anni dopo saremo in grado di scrivere le nostre regole?
LIMITARE LE NOTIFICHE, NON LASCIARSI ANDARE AL FLUSSO CONSIGLIATO DALL’ALGORITMO. IN UNA PAROLA: SCEGLIERE