NO, HO UNA CULTURA POPOLARE»
fondere l’idea che l’altro da noi sia un pericolo e non un’opportunità. Considero sbagliato e pericoloso il negazionismo. Ma mi auguro che, per negare il negazionismo, non si mantenga ad libitum questo stato di permanente tensione e isolamento sociale».
Interpreti il padre del bambino con una recitazione “a levare”. Tanto difficile quanto efficace…
«L’immagine di quell’uomo rimanda a quella di altri come lui. È inutile che ti dica che non ho pensato a Volontè di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Un’intera generazione di uomini delle forze dell’ordine di quell’epoca trasmetteva in piccoli dettagli del proprio modo di vestire, camminare, muoversi, pettinarsi, portare il corpo, qualcosa di minaccioso. Buona parte di quei funzionari erano persone del Sud, venute su da famiglie molto povere. Attraverso il loro lavoro si erano costruiti una posizione, si erano garantiti lo stipendio mensile. Nati negli anni Venti, come mio padre, erano educati con un’idea di rigore e di ordine che aveva a che fare con la loro vita, prima ancora che con il loro servizio alla nazione. In più erano uomini inarrivabili dai figli. Io mi ricordo i silenzi di mio padre, l’imbarazzo nel volergli parlare, il silenzio che regnava in casa in loro presenza. Vederlo ridere era una stranezza. La loro fragilità era nella difficoltà di uomini nati dando del lei ai propri genitori. Uomini per i quali qualsiasi gesto di affetto equivaleva ad una debolezza, uomini che non si potevano permettere di piangere davanti ai figli, non si potevano permettere di mostrare le proprie fragilità. Recitare questo personaggio “levando” era
necessario, innanzitutto per non essere ingombrante nei confronti dei due protagonisti e poi per me era giusto che anche il pubblico sentisse un pochino di soggezione nei confronti di quest’uomo». Dimmi la diversità che c’è tra imitazione e immedesimazione….
«Noi siamo schiavi del fatto che abbiamo bollato di serie A l’Actors Studio americano e di serie B tutta la tradizione italiana. La tradizione italiana è una tradizione di trasformazione. Io ho avuto come maestri Costa, Ronconi, che mi hanno sempre spinto ad imitare le persone, ad ascoltare, a guardare, a rifare. Metodo che si può attuare strizzando l’occhietto allo spettatore, oppure portando l’attore a pensare e a sentire come le persone che interpreta. Gli attori di cosa si occupano? Dei comportamenti altrui. Partire da quello che può essere un vezzo e andare a cercare il motore di quel vezzo significa scavare sull’origine della motivazione di comportamenti e atteggiamenti. inizi a capire dove sta il suo pensiero, per me stai facendo il tuo mestiere di attore».
C’è un regista del passato con cui ti sarebbe piaciuto lavorare?
«So a memoria tutti i film di Scola. Poi Pietrangeli, Elio Petri… Mi sarebbe tanto piaciuto incontrare Pasolini di cui ho una nostalgia insensata. Scola ho fatto in tempo a conoscerlo. Lavorare con lui mi sarebbe piaciuto».
Vi sareste trovati bene...
«Io sono un uomo popolare, cioè la mia è una cultura popolare, non sono un uomo particolarmente raffinato, non sono un intellettuale. Ma penso da sempre che si possa raccontare belle storie per un pubblico grande. Che qualità e quantità non siano nemiche. Ho sempre trovato che i film di Scola raccontassero l’Italia che io riconosco e che credo, ora, di saper raccontare».
Scola e quella generazione avevano proprio questa caratteristica, che li rendeva un pochino invisi alla critica, anche di
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CARTA D’IDENTITÀ