Ecco le soldatesse: forti, calme E come saranno dentro le case?
Le ho notate in montagna: una milizia di donne pesanti, sicure, niente fiori sullo zaino. Probabilmente le ammiravo. Poi mi sono chiesta: chi sono in realtà? Tra le strette pareti domestiche, la loro armatura sottopelle saprà adeguarsi almeno un po’ alla nostra vulnerabilità di persone?
Iveri amici della montagna son quelli che non si decidono ad abbandonarla nemmeno quando la stagione è finita da un pezzo, osservò l’amica che sedeva accanto a me, a un tavolino di caffè, su una terrazza, a Cortina d’Ampezzo. – I veri amici della montagna, o i fanatici delle gite e delle scalate? Non è la stessa cosa. – Guardavo in quel momento due ragazze che venivan giù, lungo il corso.
Che tipi! Soldatesse. Pesanti, calme, sicure, mi parvero crescere ad ogni passo, avanguardia di un’invisibile milizia che avanzava da valli e da monti. Al lato del sacco da montagna, scarpe da roccia; e maglioni, calze, calzettoni, calzoni a coste: tutto come di rigore.
Quanto ai colori saltava agli occhi che rifiutavano ogni antico concetto di rapporti armoniosi.
Ma le tinte e la tenuta che, ripeto, era d’uso, solita, contavano fino a un certo punto.
Contava, invece, il senso di una salute tutta speciale; una salute, direi, fabbricata, simile a un bel risultato, ma sicura, ma schietta; e una specie di violenza assimilata, perfino pacata, sulla quale esse potevano riposare come su di un diritto: di già dinastica. E, oltre tutto, colpiva un’espressione di forza, insieme a uno sprezzo della forza stessa: come accade per la ricchezza, nei grandi signori. Ci voltavano le spalle; ora, ferme, e attente a una vetrina, all’altro lato della strada, davanti a noi. Cercai sul sacco il solito pennacchio di fiori: non c’era.
Ai miei occhi, quelle figure accusavano qualcosa di preoccupantemente nuovo. Non arroganza fisica, nemmeno ostentata soddisfazione: né della loro superba salute, né d’una speciale autonomia, e neppure di una temerità di cui, forse, poco prima, avevano dato prova.
Probabilmente le ammiravo; se pure, confinata nella mia gracilità, non le invidiavo addirittura; senza però riuscire ad avvicinarmele neanche un pochino.
Presi a discorrere con la mia amica d’una loro sicurezza che viene chi sa di dove, di un non concedere nulla alla femminilità e tanto meno alla civetteria...
– Altro che mancanza di civetteria – m’interruppe. – Figuriamoci! Un disprezzo della ricercatezza cosi sapientemente regolato diventa il massimo della ricercatezza. Hanno tutta l’aria d’ignorare l’attenzione degli altri, o gli altri addirittura: ma è cosi che dell’indifferenza vien fuori la forma esaltata, e quindi innaturale.
Quanto a femminilità mi pare proprio che si tratti del suicidio vistoso, provocante, della femminilità. Delle due, la meno alta aveva messo in terra il sacco, e si frugava nelle tasche dei calzoni, allargandoli al modo dei clowns, e rimanendo con le gambe a compasso.
Chi sa che non si possa ravvisare in questi atteggiamenti, in queste espressioni del gusto e del costume, qualcosa che minaccia una salute ben più profonda di quella che esse ostentano. A guardarle, vien fatto di subodorare, attraverso tanta brusca immediatezza, una minaccia o un messaggio, decifrabile in certa modernissima letteratura, in certa nuova pittura. Chi mette in dubbio un mutamento nel rapporto dell’uomo con la natura?
Né fiduciosa contemplazione più, né indugio, né ineffabili, pigre beatitudini (...).
Di queste soldatesse, mi parvero caratteristiche un saldo equilibrio, una nettezza del gesto che sarà il riflesso d’una nettezza d’idee e anche – si salvi chi può – d’una franchezza nei rapporti umani. Come se m’avesse letto nel pensiero, l’amica fa: – Sai che ti dico: ordine, equilibrio, fermezza, decisione, solidità? Mi accorgo in questo momento che, invece, proprio nell’incertezza, nella trepidazione, specie da parte delle donne, si rivela una superiore forza, una superiore coscienza e armonia.
Le ragazze erano entrate nel negozio. Aspettavo di vederle uscire.
Sulla soglia s’imbatterono in una, giovanissima, che veniva giù lungo il corso, profilata, anzi scandita e sillabata, muscoli, tendini, intenzioni, nei calzoni elasticizzati, d’un azzurro intenso, e in un assassino golfetto giallo.
Era esile, d’una fragilità tutta spirito, animosa, era biondissima, con gli occhi a cometa: la cui coda si smarrisce nella tempia. Un alone di felicità la sosteneva, la portava. Non si poteva non guardarla. Quelle due, nemmeno la videro. Badavano a sistemarsi il sacco sulla schiena. Concorde, una giusta articolazione delle spalle per assestarlo meglio (...) Incuranti, concretissime, eppure astratte, fissavano invece un punto, venti metri più avanti, sul marciapiede. La distanza sperimentata per mantenere un passo uniforme.
Mi tornava in mente una lirica di Majakovsky sul flauto. Fra gli strumenti, il poeta avverso ai sussurri, alle prelibate sottigliezze intimistiche, scelse il flauto per esprimere la propria clamorosa furia, il flauto, «dal dolce suono». Un colpo davvero mancino (...) Col flauto, il poeta voleva diventare strillone e tamburino. Sembra una parabola. E in queste donne... femminilità agguerrita, mascherata, oggi più possente d’ieri? Chi sono in realtà? Muscoli di vivo sasso? E il seno? E l’articolazione della «fu» vita di vespa? E i pensieri? Che succede, deposto il sacco, deposta ogni armatura?
Le avevamo ormai perdute di vista e continuavamo a parlare di loro. Non si tratta, convenivamo, d’una truccatura, sostituita a quella d’ieri. È qualcosa di ben più radicalmente inedito. È un risultato. È una nascita. La nascita d’una donna nuova. Ma è nuovo l’ambiente intorno a loro? Rientrando a casa; ce la faranno a rimboccare una coperta, o a lisciare la rovescia d’un lenzuolo? O a dire «Scusa, ti prego, sono una sciocca?». O a far mangiare un bambino svogliato, inventando distraenti fantasie ad ogni cucchiaiata?
Portano con sé un’armatura, non più esteriore, che, hai voglia a mettere in un canto la corda ammatassata e il sacco e gli scarponi, ti rimane dentro, più tua del tuo scheletro. Portano, chiusa sotto la pelle, sotto i muscoli, dentro le ossa, una tenace, preoccupante, severa marionetta.
E dunque, come si piegano, come si chinano fra le strette pareti domestiche? Qual è lo scatto per uscire da tanta gagliarda atonia, e adeguarsi, almeno un pochino, al nostro affabile, sminuzzato e in fondo dolce vivere di persone in tutto e per tutto vulnerabili?
Io non lo so; e la mia amica nemmeno. Ce lo dica il romanziere o il poeta.