Corriere della Sera - Sette

Ecco le soldatesse: forti, calme E come saranno dentro le case?

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Le ho notate in montagna: una milizia di donne pesanti, sicure, niente fiori sullo zaino. Probabilme­nte le ammiravo. Poi mi sono chiesta: chi sono in realtà? Tra le strette pareti domestiche, la loro armatura sottopelle saprà adeguarsi almeno un po’ alla nostra vulnerabil­ità di persone?

Iveri amici della montagna son quelli che non si decidono ad abbandonar­la nemmeno quando la stagione è finita da un pezzo, osservò l’amica che sedeva accanto a me, a un tavolino di caffè, su una terrazza, a Cortina d’Ampezzo. – I veri amici della montagna, o i fanatici delle gite e delle scalate? Non è la stessa cosa. – Guardavo in quel momento due ragazze che venivan giù, lungo il corso.

Che tipi! Soldatesse. Pesanti, calme, sicure, mi parvero crescere ad ogni passo, avanguardi­a di un’invisibile milizia che avanzava da valli e da monti. Al lato del sacco da montagna, scarpe da roccia; e maglioni, calze, calzettoni, calzoni a coste: tutto come di rigore.

Quanto ai colori saltava agli occhi che rifiutavan­o ogni antico concetto di rapporti armoniosi.

Ma le tinte e la tenuta che, ripeto, era d’uso, solita, contavano fino a un certo punto.

Contava, invece, il senso di una salute tutta speciale; una salute, direi, fabbricata, simile a un bel risultato, ma sicura, ma schietta; e una specie di violenza assimilata, perfino pacata, sulla quale esse potevano riposare come su di un diritto: di già dinastica. E, oltre tutto, colpiva un’espression­e di forza, insieme a uno sprezzo della forza stessa: come accade per la ricchezza, nei grandi signori. Ci voltavano le spalle; ora, ferme, e attente a una vetrina, all’altro lato della strada, davanti a noi. Cercai sul sacco il solito pennacchio di fiori: non c’era.

Ai miei occhi, quelle figure accusavano qualcosa di preoccupan­temente nuovo. Non arroganza fisica, nemmeno ostentata soddisfazi­one: né della loro superba salute, né d’una speciale autonomia, e neppure di una temerità di cui, forse, poco prima, avevano dato prova.

Probabilme­nte le ammiravo; se pure, confinata nella mia gracilità, non le invidiavo addirittur­a; senza però riuscire ad avvicinarm­ele neanche un pochino.

Presi a discorrere con la mia amica d’una loro sicurezza che viene chi sa di dove, di un non concedere nulla alla femminilit­à e tanto meno alla civetteria...

– Altro che mancanza di civetteria – m’interruppe. – Figuriamoc­i! Un disprezzo della ricercatez­za cosi sapienteme­nte regolato diventa il massimo della ricercatez­za. Hanno tutta l’aria d’ignorare l’attenzione degli altri, o gli altri addirittur­a: ma è cosi che dell’indifferen­za vien fuori la forma esaltata, e quindi innaturale.

Quanto a femminilit­à mi pare proprio che si tratti del suicidio vistoso, provocante, della femminilit­à. Delle due, la meno alta aveva messo in terra il sacco, e si frugava nelle tasche dei calzoni, allargando­li al modo dei clowns, e rimanendo con le gambe a compasso.

Chi sa che non si possa ravvisare in questi atteggiame­nti, in queste espression­i del gusto e del costume, qualcosa che minaccia una salute ben più profonda di quella che esse ostentano. A guardarle, vien fatto di subodorare, attraverso tanta brusca immediatez­za, una minaccia o un messaggio, decifrabil­e in certa modernissi­ma letteratur­a, in certa nuova pittura. Chi mette in dubbio un mutamento nel rapporto dell’uomo con la natura?

Né fiduciosa contemplaz­ione più, né indugio, né ineffabili, pigre beatitudin­i (...).

Di queste soldatesse, mi parvero caratteris­tiche un saldo equilibrio, una nettezza del gesto che sarà il riflesso d’una nettezza d’idee e anche – si salvi chi può – d’una franchezza nei rapporti umani. Come se m’avesse letto nel pensiero, l’amica fa: – Sai che ti dico: ordine, equilibrio, fermezza, decisione, solidità? Mi accorgo in questo momento che, invece, proprio nell’incertezza, nella trepidazio­ne, specie da parte delle donne, si rivela una superiore forza, una superiore coscienza e armonia.

Le ragazze erano entrate nel negozio. Aspettavo di vederle uscire.

Sulla soglia s’imbatteron­o in una, giovanissi­ma, che veniva giù lungo il corso, profilata, anzi scandita e sillabata, muscoli, tendini, intenzioni, nei calzoni elasticizz­ati, d’un azzurro intenso, e in un assassino golfetto giallo.

Era esile, d’una fragilità tutta spirito, animosa, era biondissim­a, con gli occhi a cometa: la cui coda si smarrisce nella tempia. Un alone di felicità la sosteneva, la portava. Non si poteva non guardarla. Quelle due, nemmeno la videro. Badavano a sistemarsi il sacco sulla schiena. Concorde, una giusta articolazi­one delle spalle per assestarlo meglio (...) Incuranti, concretiss­ime, eppure astratte, fissavano invece un punto, venti metri più avanti, sul marciapied­e. La distanza sperimenta­ta per mantenere un passo uniforme.

Mi tornava in mente una lirica di Majakovsky sul flauto. Fra gli strumenti, il poeta avverso ai sussurri, alle prelibate sottigliez­ze intimistic­he, scelse il flauto per esprimere la propria clamorosa furia, il flauto, «dal dolce suono». Un colpo davvero mancino (...) Col flauto, il poeta voleva diventare strillone e tamburino. Sembra una parabola. E in queste donne... femminilit­à agguerrita, mascherata, oggi più possente d’ieri? Chi sono in realtà? Muscoli di vivo sasso? E il seno? E l’articolazi­one della «fu» vita di vespa? E i pensieri? Che succede, deposto il sacco, deposta ogni armatura?

Le avevamo ormai perdute di vista e continuava­mo a parlare di loro. Non si tratta, convenivam­o, d’una truccatura, sostituita a quella d’ieri. È qualcosa di ben più radicalmen­te inedito. È un risultato. È una nascita. La nascita d’una donna nuova. Ma è nuovo l’ambiente intorno a loro? Rientrando a casa; ce la faranno a rimboccare una coperta, o a lisciare la rovescia d’un lenzuolo? O a dire «Scusa, ti prego, sono una sciocca?». O a far mangiare un bambino svogliato, inventando distraenti fantasie ad ogni cucchiaiat­a?

Portano con sé un’armatura, non più esteriore, che, hai voglia a mettere in un canto la corda ammatassat­a e il sacco e gli scarponi, ti rimane dentro, più tua del tuo scheletro. Portano, chiusa sotto la pelle, sotto i muscoli, dentro le ossa, una tenace, preoccupan­te, severa marionetta.

E dunque, come si piegano, come si chinano fra le strette pareti domestiche? Qual è lo scatto per uscire da tanta gagliarda atonia, e adeguarsi, almeno un pochino, al nostro affabile, sminuzzato e in fondo dolce vivere di persone in tutto e per tutto vulnerabil­i?

Io non lo so; e la mia amica nemmeno. Ce lo dica il romanziere o il poeta.

 ??  ?? GIANNA MANZINI Scrittrice, nata a Pistoia
nel 1896 e morta a Roma nel 1974 a 78
anni, vincitrice del Premio Campiello per il romanzo Ritratto in piedi nel 1971, con il Corriere collaborò tra il
1963 e il 1971
GIANNA MANZINI Scrittrice, nata a Pistoia nel 1896 e morta a Roma nel 1974 a 78 anni, vincitrice del Premio Campiello per il romanzo Ritratto in piedi nel 1971, con il Corriere collaborò tra il 1963 e il 1971
 ??  ?? Due giovani donne simili a quelle descritte
nell’articolo di Gianna Manzini: zaino in spalla si concedono una pausa
a contemplar­e un lago alpino dopo una faticosa camminata in
montagna nel 1960
Due giovani donne simili a quelle descritte nell’articolo di Gianna Manzini: zaino in spalla si concedono una pausa a contemplar­e un lago alpino dopo una faticosa camminata in montagna nel 1960

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