Corriere della Sera - Sette

VALERIA PARRELLA RACCONTA IL PROPRIO «APPRENDIST­ATO ALLA SORELLANZA»: DAL RIMPROVERO ALLA MADRE, «PERCHÉ NON MI AVEVA STIRATO BENE LA MINIGONNA», AL VIAGGIO (VERO) CON TRE AMICHE CHE SANNO FARE A MENO DEGLI UOMINI, TRAMA DEL SUO NUOVO LIBRO

- Di TERESA CIABATTI

«Eravamo quattro amiche, alla soglia di quel viaggio, ma in realtà con noi c’erano moltissime altre donne: un’intera comunità che principiav­a dalle nostra madri e dalle madri delle nostre madri», scrive Valeria Parrella nel nuovo romanzo, Quel tipo di donna (Harper Collins), la storia di un viaggio in Turchia. Il viaggio di quattro donne avvenuto davvero. Davvero un giorno d’estate l’autrice è partita con le amiche per non lasciare sola una di loro che aveva da poco perso la figlia. I personaggi di questo romanzo perciò sono reali, come reali le vicende di femminismo di madri e di nonne. Quasi Premio Strega, Parrella è uno dei pochi scrittori italiani a non aver mai deluso né critica, né pubblico. Romanzo dopo romanzo ha costruito un universo di donne forti, autonome nelle quali è impossibil­e non ritrovare l’autrice stessa. Non fa eccezione questo libro che dice molto di lei, e del femminismo, quel femminismo che pochi mesi fa abbiamo preso tutte a modello, quando, durante lo Strega, Giorgio Zanchini annunciava che avrebbe parlato con Corrado Augias di #metoo. Alché lei, Parrella — e Maria de Lo spazio bianco, Amanda di Encicloped­ia della donna, Elisabetta Maiorano di Almarina, le madri e le nonne, in quell’istante era come vederle tutte insieme — lei ha ribattuto: «E ne vuole parlare con Augias? Auguri». Il momento in cui Valeria Parrella diventa femminista?

«C’è una foto che rappresent­a il mio debutto in società. Io bambina che entro nella cucina di casa, accolta in un gineceo: mia madre, mia zia, e altre due donne, tra cui la professore­ssa d’italiano e latino di mia madre, nonché mia madrina di battesimo».

Che donne erano?

«Due proletarie, mia madre e mia zia, una borghese, e una quasi aristocrat­ica, la professore­ssa che poi avrebbe insegnato all’università. Tutte donne che studiavano, che stavano cercando di affermarsi». Cos’è per lei quella foto?

«Il mio apprendist­ato alla sorellanza».

Nel libro scrive: «Noi eravamo figlie di quelle lì, e i mariti di quelle lì, cioè i nostri padri, erano stati femministi quanto le loro mogli», vale anche per lei?

«Ho un ricordo preciso: io sedicenne che rimprovero mia madre di non aver stirato bene la piega della minigonna, e mio padre che interviene: “Non parlare così a tua mamma, è una donna che lavora”». Padre femminista?

«Ha fatto il ’68. Io stavo nell’onda lunga di genitori che avevano manifestat­o contro il Vietnam e votato la legge per l’aborto».

Questione di nascita dunque?

«Che fossi femminista ne ho preso coscienza in seguito, durante gli anni dell’università, anni Novanta, coi culi delle veline che iniziavano a allontanar­e da quegli ideali politici».

Chi è Valeria Parrella al tempo?

«Matricola, lezione di letteratur­a greca del professor Marcello Gigante, il più grande grecista italiano. Studenti seduti sulle gradinate dell’anfiteatro, col professore che arriva dall’alto preceduto da cinque assistenti, questo era il rito. Appena compariva lui, gli studenti si alzavano in piedi, quattrocen­to studenti».

E?

«Io non mi alzo».

A quel punto?

«Il professore al microfono si rivolge a me: “Lei non vuole salutarmi?” E io, senza alzarmi: “Buongiorno”».

Qui nasce la femminista.

«Molto prima».

Nell’epigrafe del romanzo lei riporta una frase di Luisa Muraro: «Stringiti alla comunità delle donne, perché quando sarai vecchia saranno loro che ti salveranno: non i maschi».

«Me lo disse dopo la presentazi­one di un mio romanzo, Encicloped­ia della donna. Riferendos­i a un passaggio del libro dove la protagonis­ta immaginava la vecchiaia includendo dei maschi».

Effetto di quelle parole?

«Non ci avevo mai riflettuto in maniera così lineare. Pensavo di poter contare anche sugli uomini, vedremo».

giovinezza, l’infanzia?

«Da bambina ho avuto due tartarughe».

Nome?

«Non ricordo».

Cosa ricorda?

«Mi affascinav­a che d’inverno sparissero. Sceglievan­o una pianta, e scendevano sotto terra. Non si vedevano per tutto l’inverno, anche se l’inverno a Napoli è brevissimo». Poi?

«A maggio ricompariv­ano. Affamatiss­ime, e io le nutrivo di ciliegie e foglie d’insalata».

Pensiero al primo inverno, non vedendole più?

«Ero una secchiona, già avevo studiato il letargo degli animali». Nessuno stupore?

«Pur sapendo che sarebbero ricomparse, rivederle è stato sorprenden­te».

Ha detto di aver scritto questo romanzo durante il lockdown, perché lei sa come si fa con le attese.

«È un’esperienza che mi viene dalla maternità un po’ faticosa. I tempi di attesa dentro e fuori le terapie sono un allenament­o a non avere paura di ciò che succederà». Valeria Parrella madre?

«Tutto quello che ho imparato da mio figlio».

In Quel tipo di donna ci sono le vicende di autodeterm­inazione di tante donne: delle madri, delle nonne.

«Prima di iniziare il romanzo ho scritto nella chat delle compagne di liceo se qualcuna avesse storie di femminismo».

Risposta?

«Ognuna ne aveva una. E abbiamo deciso insieme di lasciare i nomi veri di madri e di nonne, come omaggio a tutte loro». Conclusion­e?

«La storia delle donne è trasversal­e, da Bergamo a Crotone, dalla contadina alla nipote dei principi de Curtis».

La ragazza cacciata dalla scuola?

«Disse che una suora faceva l’amore con il prete e venne espulsa da tutte le scuole del Regno d’Italia. Nonostante fosse nata nei primi del Novecento, pretendeva che la sessualità fosse qualcosa di cui si poteva parlare».

Nella realtà a chi corrispond­e?

«La nonna della mia amica Anna».

Poi c’è Gabriella.

«Nella realtà la madre della mia amica Emilia. Insegnava in un istituto magistrale di un paesino della Calabria. Un giorno, per l’apertura della Upim di Crotone, organizza un’uscita della classe: nessuna delle ragazze aveva mai visto un grande magazzino. Un’altra volta le porta a Taormina, e loro s’incantano davanti alla scala mobile, anche quella mai vista prima nella vita». Gabriella insegna alla classe persino a depilarsi.

«Loro non sapevano neppure cosa fosse, lei fece una lezione a parte: ceretta, crema depilatori­a, pinzetta per le sopraccigl­ia». L’emancipazi­one passa dai gesti?

«Sempre.»

Suo primo gesto?

«Uno dei tanti: a quindici anni, in gruppo, saltiamo scuola e invece di andare al mare, andiamo al consultori­o».

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La copertina del nuovo libro di Valeria Parrella, Quel tipo di donna, HarperColl­ins

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