Sanremo, l’istituzione italiana fondata sul sentimentalismo
La prima edizione andò in onda nel 1951 per radio, la tv ancora non trasmetteva. Nilla Pizzi vinse con Grazie dei fior. E quando il maestro Angelini rivelò che Saraceni, il compositore, non era lì perché diventato cieco poco prima di scriverla, nacque il Festival come evento eclatante dell’Italia sommersa
Ci sono, nella nostra misteriosa Italia, istituzioni a cui tutti si riferiscono a parole come fonte e sostegno della vita nazionale, a esempio la Costituzione, ma che nella pratica vengono spesso e volentieri dimenticate, disattese per non dire calpestate e tradite, e istituzioni che non vengono apertamente riconosciute come tali, a esempio il Campionato di calcio, ma che esercitano una costante influenza, per non dire un’implacabile tirannia sulla vita nazionale.
Il Festival di Sanremo, per quanto scandaloso possa ancora apparire ai suoi affezionati detrattori, è pure un’istituzione, e un’istituzione intermedia tra le due citate, tenendo un poco dell’una e un poco dell’altra equamente e capricciosamente insieme.
Compiendo con quest’edizione 1990 i suoi quarant’anni, il Festival di Sanremo tenterebbe quanti considerano con incredulità la sua durata a capovolgere il troppo ottimistico luogo comune: la vita comincia a quarant’anni, in un drastico dato di fatto: la vita finisce a quarant’anni. Ma sarebbe una illazione non rispettante in alcun modo quello che sappiamo del Festival e anche quello che possiamo immaginare sulla scorta dell’esperienza.
La Rai non ha aspettato il compimento dei quarant’anni per considerare concluso il Festival, ma ha dovuto ricredersi, come del resto aveva dovuto fare dopo aver stentato a prenderne in considerazione la nascita.
La televisione non era ancora entrata in funzione, la Rai, la nuova sigla sovrapposta all’Eiar del passato fascista, si limitava alla radio, il 29 gennaio 1951, quando, in seconda serata, fu mandata in onda dal Salone delle Feste del Casinò di Sanremo la prima puntata di un «Festival della canzone italiana» in due parti.
I cantanti Nilla Pizzi, Achille Togliani, il duo Fasano, che appartenevano alla stessa orchestra pure leggendaria nell’era fascista diretta dal maestro Cinico Angelini, non erano consapevoli di star fondando un’istituzione in una serata eccezionale. «Non sapevamo neppure cosa volesse dire “Festival” che allora era una parola straniera poco usata. Ci attirava, però, l’dea di andare a cantare nella città dei fiori», ricorda per «Sorrisi e canzoni» Nilla Pizzi, prima regina della canzone, con un titolo che era un programma: «Grazie dei fior».
È proprio su questo atto di nascita, firmato da Seracini, Testoni e Panzeri che si basa l’istìtuzionalità del Festival. Al momento della premiazione, Nunzio Filogamo chiamò inutilmente al microfono il maestro Seracini, il compositore della canzone vincente.
Intervenne alla fine il maestro Cinico Angelini che rivelò con voce commossa: «Il maestro Seracini non c’è, non verrà. Ha composto questa canzone poco dopo essere improvvisamente diventato cieco...».
Per fortuna, a trasmettere era ancora solo la radio. Se fosse già stata in funzione la televisione avrebbero, certo, trascinato nel Salone delle Feste del Casinò di Sanremo il compositore con gli occhiali neri. E magari glieli avrebbero fatti togliere per aumentare il pathos.
Tra alti e bassi, il Festival di Sanremo avrebbe, ha, avrà il suo carattere di manifestazione eclatante dell’Italia sommersa. Un anacronismo in grado di sfidare ogni obiezione e ogni polemica, ogni contestazione e ogni accusa, perché rispondente a una pervicace vocazione popolare al sentimentalismo. Quel sentimentalismo che, come si sa, è l’altra faccia del cinismo. È il desiderio, la brama, il bisogno di gratificazione di chi abitualmente si arrangia.
Una gratificazione non troppo impegnativa. Sentimentalismo non vuole dire, infatti, sentimento. È un surrogato, che può convivere con tutto, anche con la cattiva coscienza. È stata l’interazione tra divi o presunti tali e fans o presunti tali fioriti intorno alla manifestazione di Sanremo che ha realizzato l’inquietante fenomeno dell’audience scissa dalla ragione che domina attualmente la televisione. Alle accuse di spender troppo per l’inutile restaurazione di qualcosa di morto e sepolto la Rai Tv replica di spendere per Sanremo 220 milioni ogni 60 minuti, molto meno, quindi, di un varietà del sabato sera e con ascolti garantiti maggiori.