Corriere della Sera - Sette

«Io maschio, tu femmina» Storia ordinaria in università

- TERESA CIABATTI SILVIA AVALLONE CHIARA GAMBERALE

Questa è la storia vera di una ragazza qualunque. Il professore con il quale si è laureata dirigeva un dipartimen­to in un importante istituto di ricerca italiano e l’anno in cui lei lavorava alla tesi lui le disse: «Vorrei che collaboras­si con me». La ragazza non avrebbe mai osato sperarlo, davvero l’aveva scelta?

In effetti, pochi giorni dopo la laurea lui la chiamò per annunciarl­e il bando di un concorso: sarebbe stato erogato un assegno di ricerca per un progetto incentrato sui temi della sua tesi. Inoltre, la invitò a condensare i suoi studi in un saggio in inglese da pubblicare a livello internazio­nale e a candidarsi per un dottorato. I genitori non ci credevano: laureata a luglio, a ottobre la figlia avrebbe cominciato a percepire uno stipendio, e per fare ciò che le piaceva, studiare.

Ma un mese dopo le cose cambiarono di colpo. Il professore l’avvertì che era meglio non presentars­i al concorso: poiché non ci sarebbero più stati i soldi previsti, la commission­e avrebbe dovuto bocciarla, qualunque fosse stata la sua performanc­e all’esame. L’ammissione all’orale del dottorato invece avveniva per titoli, senza uno scritto, e nonostante la lode, un’esperienza di quasi un anno in un altro istituto di ricerca, la conoscenza di tre lingue e una pubblicazi­one in corso, lei non fu ammessa. Quando contattò il presidente della commission­e per chiedergli perché

– forse la sua tesi non era all’altezza? eppure il suo professore ne era così convinto – si sentì dire che non tutte le domande possono avere una risposta. Subito dopo le telefonò il professore e le diede della prepotente. Lei si chiedeva che cosa ci fosse di sbagliato nel suo curriculum, in cerca di qualcosa per cui rimprovera­rsi, e lui la chiamava prepotente. Da quel momento cominciò a non risponderl­e più alle email, finché, di fronte alla perplessit­à e alla disperazio­ne della ragazza – tutto era andato in frantumi in un attimo –, non accettò di darle udienza.

La convocò una mattina presto, le concedeva venti minuti, poi sarebbe andato in riunione. Il futuro della ragazza era appena crollato, ma lui non aveva tempo di aggirarsi fra le macerie. Con l’ingenuità della ventiquatt­renne che era, lei chiese: Ho fatto qualcosa di male? Sa, ho l’impression­e che sia diventato ostile con me. Lui sospirò, poi disse: Non hai fatto niente, è che per me questo rapporto si è trasformat­o in un rapporto maschio-femmina, e io non riesco più a lavorare con te.

La ragazza non sapeva che cosa rispondere. Lui aveva

i capelli bianchi e radi, una crosta sul naso, come si fosse graffiato, e non aveva detto «uomo-donna», ma «maschio-femmina», neanche parlasse di due bestie. Solo allora lei ricordò certi comportame­nti ai quali non aveva dato peso, per esempio un pizzicotto sulla pancia, che aveva interpreta­to come un gesto d’affetto fuori luogo. Solo allora capì perché in quell’anno lui le aveva dedicato tre ore ogni volta che lei aveva portato un capitolo nuovo della tesi, neanche il suo tempo fosse infinito. Ma fece finta di nulla, si mise a parlare con foga del saggio che stava scrivendo e di un nuovo interessan­tissimo libro che aveva scovato. Lui si alzò e aprì la porta. La stava buttando fuori. Lei scoppiò a piangere, si sentiva abbandonat­a. Fu congedata con questa frase: Sei una ragazza sveglia, ce la farai da sola, non hai bisogno di me.

La ragazza spiegò ai genitori che tutto era franato ma senza confessare loro la verità: se ne vergognava come fosse stata colpa sua. Il padre ipotizzò: Col tuo brutto carattere, gli avrai di certo risposto male, lo avrai indispetti­to. Un amico (un uomo), cui invece la verità l’aveva raccontata, commentò: Si è comportato bene, avrebbe potuto provarci, invece ti ha solo allontanat­a. (Cioè ha deciso per il suo futuro in base a una propria debolezza e questo sarebbe lecito, anzi ammirevole, solo perché non l’ha molestata?) Un altro amico (un altro uomo) suppose: Forse non eri abbastanza brava e non voleva dirtelo, così ha inventato una scusa. (Cioè avrebbe preferito umiliarsi anziché essere profession­ale?)

La ragazza sognò il professore quasi ogni notte per mesi, e due anni dopo trovò il proprio saggio in inglese pubblicato esclusivam­ente a nome di lui. Lo mostrò a un altro docente con cui aveva collaborat­o e al quale neppure aveva confessato la verità; lui le disse: Da che mondo è mondo accade che un insegnante si avvalga del lavoro di uno studente, che cosa vuoi, delle scuse?

No. Lei avrebbe voluto che lui la liberasse: non è colpa tua, delle tue camiciole, del tuo entusiasmo da ventiquatt­renne, del tuo bisogno di riconoscim­ento, non ho frainteso nulla, non sei stata ambigua, sono stato io, non c’è niente di cui devi vergognart­i.

La ragazza ha impiegato diciotto anni per comprender­e che era opportuno dirlo, a tutti. Da che mondo è mondo accade, sì, che le donne si sentano responsabi­li del desiderio di uomini verso cui non provano desiderio, che si sentano stupide per non averlo intuito, colto, evitato. Per anni lei ha avuto paura che il desiderio maschile le si potesse ritorcere contro. Per anni ha pensato che parlarne fosse toccare un tema «da donne», fare un discorso che gli uomini avrebbero considerat­o marginale o, peggio, vittimista – ecco di che cosa ci accusano quando si rifiutano di vedere la realtà: di metterci nella condizione di vittime, come fosse ancora una volta colpa nostra. Invece questa è una storia sulla disparità e l’abuso di potere, perciò riguarda chiunque.

C’è una cosa sulla quale il professore aveva ragione: la ragazza – io la conosco bene – ce l’ha fatta da sola. Perché non aveva bisogno di lui.

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