COLUMBINE LA VERITÀ RITROVATA NEI DIARI
«Dylan, sono John». «John chi? John Savage?» «Sì. Ma che state facendo?» «Mah, niente, uccidiamo gente». «E ammazzerete anche me?» «Hmm… No, man. Alzati e vattene da qui. Corri. Ho detto corri!»
È un passaggio della strage della scuola Columbine del 1999, che portò via con sé la vita di dodici studenti, un insegnante e ventiquattro ragazzi, lacerati per sempre nel corpo e nell’anima. Chi col viso sfigurato, chi sulla sedia a rotelle. Un intermezzo in un’impresa criminale spietata, nella quale fa capolino uno squarcio di grottesca umanità. John Savage, lo studente che si vide puntare contro un fucile a pompa da uno dei due giovani killer, Eric Harris, venne salvato da Dylan Klebold, di concerto con il socio criminale, solo perché i due lo conoscevano.
Il massacro della Columbine ha aperto una voragine di domande mai risolte fino in fondo. Il mattino del 20 aprile del 1999 due studenti dell’ultimo anno, Eric Harris e Dylan Klebold, arrivarono a scuola con borsoni zeppi di armi da fuoco e bombe al propano: in Colorado è facilissimo procurarsi queste cose. Provarono a far saltare in aria la caffetteria della scuola durante la pausa pranzo, ritenendola l’occasione migliore di far morire il maggior numero possibile di persone. Il piano prevedeva di aspettare al fondo del corridoio i fuggiaschi, per sterminarli. Ma gli ordigni non esplosero e allora i due iniziarono a girovagare su e giù per i piani dell’edificio, aprendo il fuoco a caso contro chiunque incontrassero. Sparavano a chi fuggiva, a chi trovavano seduto sulle scale a chiacchierare; giustiziarono a sangue freddo ragazzi nascosti dietro i tavoli, anticipando gli spari con domande come «Tu credi in Dio?» oppure facendosi beffe del terrore delle vittime, canticchiando «Cucù! Sei morto!» prima di premere il grilletto. Dopo aver ucciso e ferito compagni inermi nella biblioteca, qualcuno sentì Dylan dire al socio: «Forse dovremmo iniziare ad accoltellare, sarebbe più divertente».
Gli errori
Al tempo, non esistevano protocolli per le sparatorie scolastiche. I reparti speciali Swat, oggi addestrati per neutralizzare la minaccia al più presto, entrarono nell’edificio molte ore dopo l’inizio degli eventi e, quando i due se ne accorsero, ebbero il tempo di tornare in biblioteca – il luogo in cui avevano ucciso più ragazzi – e di suicidarsi. Anni di inchieste e di studi sul caso, limitati dalla decisione di non rendere pubblico tutto il materiale per non ingenerare lo spirito di emulazione (su tutti i filmati girati dai due killer nei mesi di preparazione del massacro) hanno offerto una prospettiva diversa, rispetto alle letture a caldo di un evento tanto infausto. Come è possibile che due studenti normali, tutto sommato integrati, figli di famiglie borghesi inserite nella società, abbiano potuto architettare uno sterminio di massa a 18 anni?
A far cadere l’ipotesi di una setta demoniaca denominata Trenchoat mafia, la mafia del soprabito nero che Harris e Klebold effettivamente indossavano durante la strage, fu lo stesso John Savage: né Eric né Dylan ne facevano parte e, soprattutto, quella non era un’associazione per delinquere ma una ragazzata di studenti che si vestivano di scuro e si dilettavano con il gioco di carte Dungeons&Dragons. Giornali e televisioni attizzarono la pista del bullismo, forzando alcuni studenti a confessare che i due «odiavano gli atleti» e i maschi più aitanti, perché loro non lo erano. Ma il giornalista Dave Cullen, dopo anni passati a spulciare gli atti dell’inchiesta e i diari dei due killer, ha escluso che la sete di ven
detta per una supposta esclusione sociale potesse essere il movente.
Piuttosto, emerge una escalation di odio che covava nella mente del duo. Eric Harris, magro, butterato, dall’intelligenza viva e veloce, figlio di una casalinga e di un pilota dell’Air Force: la sua adolescenza fu ordinaria («a typical kid», un ragazzo qualunque, dissero i suoi amici) solo in apparenza. Lo sviluppo portò con sé disturbi sempre meno fisiologici e mai emersi, se non a cose fatte. Il disagio per i frequenti traslochi professionali del padre, espressamente citati da Eric come causa di perdita di amicizie, fermentò fino a trasfigurarsi in un odio sempre più ampio e inclusivo: contro compagni di classe, ragazze, vicini di casa, chiunque. Fino a considerare l’umanità tutta. Su un progenitore dei blog, Eric sviluppava pensieri sullo schifo che gli suscitava la razza umana, meritevole di essere sterminata, e sul puro piacere di uccidere. Un delirio che crebbe dopo un furto di parti di computer che lui e Klebold commisero ai danni del proprietario di un furgone, per il quale vennero condannati a un programma di riabilitazione e, per lui, a una cura con antidepressivi. In superficie, però, di visibile restava poco: educato e con buon profitto scolastico, Harris riusciva a mantenere celato l’inferno che ribolliva sotto la crosta. Si vantava, scrivendo, di recitare perfettamente la parte del bravo ragazzo. Sul suo diario, «Il libro di Dio», passava dalla considerazione che la incolpevole vittima del furto fosse uno stupido, un «fottuto bastardo meritevole di morire per selezione naturale» a pensieri quali «i nazisti hanno fatto fuori gli ebrei con la soluzione finale. Ecco, nel caso non lo aveste capito, io dico “uccidiamo tutti”». Rabbia, esaltazione di sé e il desiderio di «fare qualcosa che lascerà il segno», con la violenza cieca gratuita come sommo piacere e affermazione della propria superiorità, animarono l’ultimo anno di vita di Eric Harris. Se Eric era psicopatico, in Klebold si intravede un depresso autolesionista, trascinato al male dall’amico: meno truculenti, i suoi scritti raccontano di infelicità, dell’amore per una ragazza. Dylan pensava di «lasciare questa vita, che non è granché, per stare finalmente in pace» con un ultimo gesto plateale. Un odio indotto, il suo. Ed è il cruccio della madre, Sue, autrice di un libro catartico in cui racconta lo smarrimento e l’inconsolabilità per aver cresciuto un figlio assassino nella totale inconsapevolezza di quanto stesse per capitare.
John Savage ha quarant’anni e ha letto i diari di Harris, in cui si ricordava che non avrebbe dovuto «avere pietà per le preghiere, neanche degli amici» durante la strage. È vivo perché, anche con un Savage-Sprinfield con dodici colpi mirato in testa a un ragazzino rannicchiato a terra, Eric non fu mai l’uomo onnipotente che tentava di impersonare.