MARCO FOLLINI
indifferentemente Moro e Berlusconi, di cui è stato anche vicepresidente del Consiglio.
Una scena a caso presa dal romanzo, in cui col trucco della fiction Follini mette insieme fatti noti e inediti, piccoli e grandi, della vita dello statista ucciso dalle Br. Siamo nel 1968: Moro va a trovare Padre Pio a San Giovanni Rotondo. Padre Pio inizia a parlargli di alcuni altri dirigenti della Dc, non proprio amici di Moro, che erano stati da lui in precedenza. «Aldo, ma che succede? Io vedo sangue! Qua vedo molto sangue, Aldo!», inizia a gridare a un certo punto il frate poi diventato santo, che morirà un anno dopo. I pochi testimoni dell’incontro avrebbero ricordato quelle parole guardando il cadavere di Moro nella R4, in via Caetani, undici anni dopo.
Lei quel giorno era presente alla più drammatica riunione della storia della Dc, come segretario del movimento giovanile.
«Era la riunione da cui si aspettava un cambio di linea, dalla fermezza nei confronti delle Br alla trattativa. Attendevamo un intervento di Fanfani in questa direzione. A un certo punto arrivano delle notizie da via Caetani, all’inizio confuse. “Hanno trovato un cadavere qua dietro”. Più passavano i secondi, più quel cadavere assumeva nelle nostre teste le sembianze reali, quelle di Moro».
Lei era per la fermezza, come Andreotti e i vertici della Dc, o per la trattativa?
«Le mie convinzioni dell’epoca andavano nella direzione che bisognava trattare. E col passare degli anni si sono rafforzate ancora di più».
Rimpianti?
«Quello di non aver portato avanti con maggiore incisività la linea della trattativa per salvare Moro».
Com’era Moro, visto con gli occhi di un ventenne?
«Io ne ero intimidito. Le racconto questa. Bergamo, 1977: siamo al congresso dei giovani della Dc che mi avrebbe eletto segretario. Io sono di fatto candidato, ma ancora l’accordo non c’è. Arriva in
L’ex segreatrio dell’Udc, nel romanzo che sta scrivendo, racconta dettagli inediti (drammatici e no) di trent’anni di politica. Come la domanda che Berlusconi fece al telefono a sua figlia: «Ma tu fai le coccole a papà, quando torna la sera?»
città Moro, io e il segretario uscente Fornasari andiamo a trovarlo in albergo. Per fare bella figura, parlo per quattro o cinque minuti di massimi sistemi, tentando di volare alto. Poi prende la parola Fornasari, che invece va dritto al punto: “Presidente, se facciamo un congresso unitario, allora dobbiamo eleggere il qui presente Marco
segretario. Altrimenti…”. Più tardi Moro si sarebbe presentato sulle tribune del congresso per dire che non conosceva i nostri equilibri, che rispettava la nostra sovranità ma che c’era “un gran bisogno di unità”».
L’aveva incoronata.
«In un trafiletto, l’Unità titolò: “Moro si schiera con Follini”». Andreotti era così diverso da Moro?
«Vede, in quegli anni la Dc era come una scuola. Una scuola in cui, a prescindere dall’appartenenza a una corrente, ciascun giovane avvertiva il tentativo dei vertici di costruire una classe dirigente destinata a sostituirli. La prima volta che entrai nella Direzione del partito mi avvicinai ad Andreotti, che era presidente del Consiglio. “Presidente, vorrei venire a trovarla”, gli dico. Pensavo a chissà quanto tempo ci sarebbe voluto per quell’appuntamento…».
E invece?
«Andreotti mi risponde: “Domani mattina alle 9, sempre se per te non è troppo presto”. Magari pensava che, come per molti ventenni, anche per me le 9 fossero un orario eccessivamente mattiniero. Andreotti era sempre puntuale, cosa che a pensarci adesso sembra incredibile per uno con quel carico di impegni. Una volta ci trovammo a un convegno a Viterbo. Mi disse: “Se tu sei il Papa del movimento giovanile, io sono San Pietro”».
Che effetto le fece, anni dopo, vederlo imputato di processi di mafia?
«Io non sono mai stato andreottiano. Posso immaginare quello che poteva succedere a livello periferico a un partito come la Dc, certo; ma Andreotti mafioso no, a quell’accusa non ho creduto mai, neanche per cinque minuti».
A conti fatti, la Prima Repubblica promuoveva il ricambio generazionale più della Seconda, in cui s’è addirittura arrivati a teorizzare la «rottamazione» dei vecchi leader.
«È vero. Ma all’epoca i “padri” sapevano essere severi, non ti perdonavano nulla, non erano concessi errori, non era consentito montarsi la testa o dare l’impressione di essersela montata».
Un esempio?
«Quando avevo poco più di trent’anni, la Dc mi manda a fare il consigliere d’amministrazione della Rai. Un giorno incontro Ciriaco De Mita, che mi fa: “Tu sei bravo ma di bravi che possono fare il consigliere d’amministrazione della Rai alla tua età, in Italia, ce ne sono a centinaia. Solo che, a differenza tua, loro non mi conoscono”».
Fulminante.
«Era la dialettica tra le generazioni all’interno di un partito politico, all’epoca».
Quando lei rientra dalla Rai al partito, in piena Tangentopoli, la peggiore delle sorprese: il partito non c’è più.
«C’era anche la mia mano dietro la relazione con cui Martinazzoli arrivò allo scioglimento della Dc. Mi chiese di scrivere un testo e il senso rimase nella relazione, anche se cambiò tutte le parole. La sua intenzione, e anche la mia, era ovviamente di cercare di salvare la Dc, non liquidarla».
Nell’Italia del bipolarismo finì nella parte di Berlusconi, di cui anni dopo sarebbe stato un “eterodosso” vicepremier.
«Berlusconi è un figlio del Sessantotto, spesso non vede la differenza tra affinità personale e critica politica. Se gli fai una critica politica, pensa che tu non gli voglia bene. Io, al contrario, sembro più un signore dell’Ottocento».
così: “Fagliele le coccole a papà quando torna stanco la sera a casa, lui sarà contento. La mia gioia più grande è quando torno a casa e i miei figli mi fanno le coccole. Adesso è tornato papà, te lo ripasso”».
Negli anni a venire, Follini, lei con Berlusconi si sarebbe scontrato più volte, fino alla rottura definitiva.
«Ma quel suo tratto umano non l’ho mai sottovalutato. Quella telefonata con mia figlia, il sentirlo parlare dei suoi figli, la punta di commozione che avevo visto nei suoi occhi: ecco, ho sempre pensato che fossero tratti della sua biografia tutt’altro che sottovalutabili. Naturalmente restano ferme tutte le mie critiche politiche, anche le più aspre».
E torniamo alla differenza tra affinità umane e idee politiche. Uno che ha idee politiche diverse dalle sue con cui però sente di aver avuto una grande affinità umana?
«Il primo nome che mi viene in mente è quello di Massimo D’Alema. Quando ero segretario del Movimento giovanile della Dc, lui era il segretario della Federazione dei giovani comunisti. C’è un tratto biografico comune, anche se un’impostazione culturale e delle idee diverse».
E qualcuno che aveva le sue stesse idee, con cui invece non c’è più affinità umana?
(È l’unico momento in un’ora e passa di intervista che Follini non risponde subito, ndr). «Io sono arrivato a un’età in cui non ci si può permettere di pensare alla mancanza di affinità umana con chicchessia. Figurarsi con qualcuno con cui hai condiviso le stesse idee, la stessa storia».