Bertini, prima e ultima diva
Splendida novantenne Francesca Bertini riceveva ancora al Grand Hotel profumata, ingioiellata, lo sguardo reso più affilato dalle ciglia finte scurissime a contrasto con i peli e le piume bianche che l’avvolgevano come in una nuvola. Anche se in realtà abitava in un minuscolo appartamento nella zona
meno appariscente dei Parioli, ospite di un’amica. «Il tè del Grand Hotel era il suo stare in palcoscenico, la recita continua del suo ruolo di Divina» ha riconosciuto con affettuosa indulgenza il critico Gianluigi Rondi. Francesca, la donna che negli anni Dieci del 900 inventò il divismo, fu la prima diva e fu diva fino all’ultimo. Lo narrava con quell’umorismo lieve e sorvolante tipico di molti napoletani che faceva da contrappunto all’indole autoritaria e al delirio di controllo con cui, giovanissima, dominava i set del muto italico dando disposizioni in napoletano stretto, orientando luci e inquadrature. E ancora nelle interviste dei suoi 80 anni, quando Bernardo Bertolucci la volle per una rentrée nel suo Novecento nel cameo di suor Desolata, raccontava gli inizi quando il cinema italiano si inventava e lei inventò sé stessa. Con piccoli cortometraggi pubblicitari in cui spiegava la sua giornata, atteggiandosi nella vita come in un film, anzi una film come talvolta si diceva.
Arrivando a guadagnare 3,5 milioni l’anno ai tempi del film “realistico” Assunta Spina, storia di una donna sfregiata per amore molesto. «In quegli anni i giornali americani scrissero che i due attori più pagati al mondo erano Francesca Bertini a Roma ed Enrico Caruso in America, un paragone che non fecero certo per la voce, campo in cui lasciavo molto a desiderare» ha raccontato in una intervista Rai a Lelio Luttazzi. La voce roca e gutturale era l’unica cosa che non riusciva a dominare,