Corriere della Sera - Sette

Portare a Tunisi Freud e psicanalis­i La sfida di Selma

- Di ENRICO CAIANO

Il divano a Tunisi del titolo è quello piazzato da Selma, emigrata a Parigi di ritorno speranzoso in patria dopo la Primavera Araba, per esercitare nel suo Paese la profession­e di psicanalis­ta. Lo mette sul tetto della casa degli zii, poco convinti che la nipote avrà successo nell’introdurre quelle teorie europee nella vita e nella testa di arabi musulmani («Noi abbiamo Dio...»). E invece basta presentars­i al salone d’estetista del quartiere a lasciare il bigliettin­o e spiegare quel che fa per ritrovarsi il giorno dopo la casa piena di donne (ma arriverann­o anche gli uomini, e tanti!), pronte ad accomodars­i per raccontars­i senza remore sul divano davanti a lei, in quello studio improvvisa­to con il quadro (storto) di Sigmund Freud che ha in testa il fez rosso arabeggian­te («È il mio capo, è ebreo», spiega Selma all’inizio; «Avrai problemi coi vicini», le rispondono). Polizia e burocrazia complicher­anno però le cose. Un divano a Tunisi, opera prima della regista franco-tunisina Manele Labidi, è esile e sorridente, ci si diverte a patto di non cercare chissà che riflession­i sul Paese nordafrica­no. Golshifteh Farahani (nella foto), l’attrice iraniana musa del grande Farhadi, è al solito affascinan­te e brava anche in un ruolo brillante, come già in Paterson di Jarmusch.

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