Portare a Tunisi Freud e psicanalisi La sfida di Selma
Il divano a Tunisi del titolo è quello piazzato da Selma, emigrata a Parigi di ritorno speranzoso in patria dopo la Primavera Araba, per esercitare nel suo Paese la professione di psicanalista. Lo mette sul tetto della casa degli zii, poco convinti che la nipote avrà successo nell’introdurre quelle teorie europee nella vita e nella testa di arabi musulmani («Noi abbiamo Dio...»). E invece basta presentarsi al salone d’estetista del quartiere a lasciare il bigliettino e spiegare quel che fa per ritrovarsi il giorno dopo la casa piena di donne (ma arriveranno anche gli uomini, e tanti!), pronte ad accomodarsi per raccontarsi senza remore sul divano davanti a lei, in quello studio improvvisato con il quadro (storto) di Sigmund Freud che ha in testa il fez rosso arabeggiante («È il mio capo, è ebreo», spiega Selma all’inizio; «Avrai problemi coi vicini», le rispondono). Polizia e burocrazia complicheranno però le cose. Un divano a Tunisi, opera prima della regista franco-tunisina Manele Labidi, è esile e sorridente, ci si diverte a patto di non cercare chissà che riflessioni sul Paese nordafricano. Golshifteh Farahani (nella foto), l’attrice iraniana musa del grande Farhadi, è al solito affascinante e brava anche in un ruolo brillante, come già in Paterson di Jarmusch.