SERIAL KILLER OTTO DONNE UCCISE IL MISTERO DI MILANO
E dunque, se è stato un sol uomo, ha aspettato l’allontanamento a bordo di un taxi dell’amica di Salvina prima di salire da lei, si è seduto con Adele Margherita davanti a due bicchierini di liquore e un vassoio di caramelle Sperlari, ha seguito Alba in un umido sottoscala, ha osservato Olimpia posare le mani sulla sottana marrone…
Anche Milano ha (avrebbe avuto) il suo serial killer. Nascosto negli anni Sessanta e soprattutto nei Settanta. In una città terrorizzata da brigatisti, guerre tra clan criminali, sequestri di persona, rapine a mano rigorosamente armata e colpo in canna, e una rabbia di popolo istantanea, ferale: delitti per strada, sui ballatoi delle case di ringhiera, nelle fabbriche, nei negozi; bastava un’occhiata oppure una parola e scorreva il sangue.
Una rabbia in certe stagioni innescò una media di un omicidio a settimana.
La contro-inchiesta
Forse non è vero che dinanzi alla morte – quantomeno la morte per assassinio – siamo tutti uguali. In conseguenza non magari di una scelta: semmai, di un residuale tempo per gli investigatori, dell’assenza di risorse e uomini altrove dirottati, di oggettive ancorché ingiuste limitazioni.
Forse, all’epoca, la ricerca della verità del cosiddetto delitto politico sopravanzava il cosiddetto delitto comune. Quale però non dovrebbe esser stato nel caso di almeno otto donne, ragionando sui recenti studi del criminologo Franco Posa che ha avviato questa contro-inchiesta a sue spese e ipotizzato una mano comune.
Un uomo, innescato da un’ira spropositata, dal 1963 al 1976 avrebbe assassinato preferendo un coltello la commessa Salvina Rota, l’affittacamere Adele Margherita Dossena, la venditrice ambulante Alba Trosti, le prostitute Olimpia Drusin, Elisa Casarotto e Tiziana Moscadelli, la stilista Valentina Masneri e la dirigente della Montedison Simonetta Ferrero, vittima del caso più mediatico, il delitto della Cattolica.
Morti senza giustizia. Le premesse sopra menzionate, relative a un vortice di atroci reati in quel tragico periodo che tolsero spazio e tempo a qualsiasi altra inchiesta, rappresentano una spiegazione parziale sull’assenza di un colpevole in ognuno di questi casi. Precisazione che peraltro non deve sembrare irrispettosa nei confronti dei prodigiosi magistrati, alcuni dei quali trucidati dai terroristi, e degli altrettanti poliziotti e carabinieri che diedero la caccia agli assassini, mai ipotizzando in via ufficiale un unico uomo in azione.
Eppure, non fosse per gli accertamenti di Posa, rivelati a inizio gennaio dal Corriere e rafforzati dall’intervista alla figlia di
Le vittime avevano storie molto diverse ma vivevano dentro un triangolo chiuso tra via Filzi, piazza Cordusio, via Pace. Molte aprirono la porta all’assassino. Un criminologo e un avvocato indagano sulla catena di delitti che insanguinarono la città negli Anni 60 e 70. Il sospetto: la mano era la stessa
nubili. Delle due sposate, anzi che lo erano state fino alla separazione (Adele Margherita Dossena e Olimpia Drusin), abbiamo trovato una delle figlie e il figlio, ed entrambi hanno rivelato elementi utili.
La pista dei ferrovieri
In particolar modo Agostina Belli, a cominciare da una fotografia che la ritraeva insieme in riva al lago con la mamma ed Elisa Casarotto, proprio lei, che si vendeva ai camionisti in un bosco di pioppi a Lacchiarella, hinterland di Milano. Quando morì, nel 1964, massacrata a pugnalate, Elisa aveva 29 anni, venti in meno della dai prezzi bassi come appunto la struttura di Dossena, accessibili per studenti universitari del sud e ferrovieri. Era ferroviere l’amante di Salvina Rota, nata in provincia di Caserta, un 40enne che lei, 22 anni, aveva condiviso con una o forse più conoscenti. Fu un ferroviere, anche su altri delitti, la categoria professionale che gli sbirri esplorarono imbeccati da qualche dritta, però illusoria. Così come lo scandagliare l’ambiente dei tassisti.
Le porte aperte
Escludendo Olimpia ed Elisa, assassinate dall’uomo salito sulle loro macchine per consumare un rapporto sessuale, escludendo anche Simonetta, uccisa in un bagno dell’ateneo, le altre cinque donne aprirono portoni e porte al killer. Lo fece Alba Trosti, origini borghesi, infanzia tranquilla, poi scelte sbagliate di vita pagate duro. Vero che di giorno si arrangiava come venditrice ambulante, ma la sera camminava intorno al Duomo (la pensione dove dormiva era in via Soncino) augurandosi che gli uomini si avvicinassero domandando prezzo e luogo; soltanto gli inquilini potevano aprire il portone d’ingresso.
Tiziana, 20 anni, si vendeva al parco Sempione ma rifiutava, forse per non incorrere nelle malelingue dei vicini di casa, di accogliere estranei nell’alloggio in via Tertulliano, dove invece fu uccisa
Una affittacamere, una stilista, una venditrice ambulante, tre prostitute, una commessa e una dirigente: tutte furono massacrate a pugnalate. E l’assassino non rubò mai nulla
da una persona che fece accomodare nel modesto salotto.
Adele Margherita invitò l’ospite perfino a mettersi comodo.
Non si fosse fidata, Valentina, che era in ciabatte, grembiule e guanti (stava lavando i piatti prima di partire in aereo per la Germania, destinazione un incontro con clienti), non avrebbe ricevuto l’uomo poi suo assassino.
Avesse temuto la persona che di lì a poco si sarebbe presentata per uccidere, forse Salvina non avrebbe congedato l’amica Teresa, cameriera in una villa di baroni, lasciandola andar via in taxi. Il suo omicida tentò di bruciare il cadavere, riuscendoci