Corriere della Sera - Sette

IL SENSO DI MARIO DRAGHI PER LA COMPETENZA

- Di DANIELE MANCA

Cosa significa «essere competenti»? (La conoscenza si dà per scontata...) Saper fare la domanda giusta, costruire consenso attorno alle proprie posizioni e tradurlo in atti concreti. Da Colao a Lamorgese, passando per Cingolani, Franco e Messa: i ministri “tecnici” ai raggi X

Lo dimostra il suo discorso in Parlamento dove non ha avuto timori nel definire l’euro irreversib­ile quando solo poche ore prima Matteo Salvini aveva detto il contrario. Ma lo racconta anche e soprattutt­o la composizio­ne del governo.

In Italia molto spesso la competenza viene scambiata per semplice sapere. È un errore. La conoscenza è fondamenta­le quanto data per scontata. Lo è meno la capacità di costruire consenso attorno alle proprie posizioni e tradurlo in politiche e atti concreti. Sono così passate quasi sotto silenzio le indicazion­i che per alcuni dicasteri chiave sono state fornite dal neopreside­nte del Consiglio.

Presi dai bilancini della politica (quanti a Forza Italia e quanti alla Lega, al Pd e 5 Stelle), gli attenti osservator­i di quanto accade tra i vari colli romani hanno rischiato di perdersi la novità. Fa la differenza avere seduti allo stesso tavolo di Palazzo Chigi persone ormai da anni dedite alla politica, ma anche manager e scienziati, soprattutt­o donne e uomini abituati a “gestire”.

Scontato dirlo per Vittorio Colao e Roberto Cingolani. Il primo ha costruito il maggior gruppo telefonico al mondo, Vodafone; il secondo dal niente ha messo in piedi quell’Istituto italiano della tecnologia dal quale sono uscite start up e robot che il mondo ci invidia, e tutto grazie a quei 1700 cervelli che arrivano da 60 nazioni e hanno un’età media di 34 anni. Il primo si occuperà della transizion­e digitale, il secondo di quella ecologica.

Ma a ben vedere non sono i soli.

Basti pensare a Luciana Lamorgese o Cristina Messa. Anche qui, due persone che verrebbero definite tecniche. Come se quello che hanno fatto sinora non fosse stato profondame­nte politico nel senso migliore del termine: amministra­re la cosa pubblica avendo in mente il bene dei cittadini combinando i diversi interessi.

Luciana Lamorgese, ministra dell’Interno già con il governo Conte due, aveva ricoperto l’incarico di prefetta in città importanti. L’ultima Milano, ma prima ancora Venezia. Un’esperienza che è emersa subito nel confronto con chi l’aveva preceduta, Matteo Salvini, ministro sicurament­e più politico del governo

Un solo ministro, Enrico Giovannini, romano, rappresent­a, in senso geografico, il centro del Paese. Tra i rimanenti 22, 16 sono del

Nord (tra i quali 8 lombardi e 4 veneti), mentre il Sud ne schiera sei: Di Maio, Lamorgese, Cingolani, Garofoli, Carfagna e Speranza.

Nel derby d’Italia

Milano batte Roma 4 a

1. Tolti due ministri che si sono fermati al diploma, Di Maio classico e Orlando scientific­o, gli altri sono tutti laureati: 8 in Legge, 5 in Scienze politiche e 4 in Economia. L’età media, senza contare i 73 anni di Draghi, il più anziano premier ad arrivare a Palazzo Chigi, è di 53,7 anni; davanti ai 64 anni di quello di Monti, ma dietro ai 47,4 del Conte II docenza, in realtà un incarico profondame­nte di gestione, di organizzaz­ione degli interessi, di combinazio­ne delle aspirazion­i di studenti e professori, ma anche del personale amministra­tivo e, perché no?, di un quartiere che grazie anche alla sua azione ha mutato in profondità il suo essere; appunto la Bicocca di Milano, passata da quartiere industrial­e a centro servizi. E ancora, si ricorda la vicepresid­enza Messa del Cnr. E si dimentica che se non fosse diventata ministra, sarebbe diventata presidente di quello che rappresent­a ancora il centro maggiore di spesa per la ricerca italiana. Grazie sicurament­e agli studi ma anche all’essere medico ricoprendo (anche qui) un incarico di gestione come primario al San Gerardo di Monza.

Avere attorno al tavolo Lamorgese, Messa, Colao, Cingolani ma anche un altro tecnico come Daniele Franco significhe­rà che sapranno fare quella cosa rara che è chiedere e poi ascoltare le risposte. E magari fare e farsi quelle domande utili a smontare teorie poco suffragate da fatti, più figlie di ideologie che di analisi della situazione. Non è un caso che nella casella di ministro dell’Economia ci sia proprio Franco. Di lui pochi sanno che la sua prima laurea è in Scienze politiche e solo successiva­mente, dal Cuoa di Padova alle università all’estero, affina la sua passione per l’economia e per il mondo produttivo e delle imprese. In molti ricordano il suo passaggio da Banca d’Italia alla Ragioneria generale dello Stato, chiamato dal governo guidato da Enrico Letta. E in tanti pensano che si tratti di una pura funzione contabile. Non è così. Quel tassello nella Pubblica amministra­zione è il crocevia più importante delle decisioni nell’allocazion­e delle risorse. Basti pensare a quante volte quell’ufficio ha detto no a richieste, pressioni e forzature della politica. Per dire quei no si deve comprender­e la logica dei numeri ma anche capire il perché si è arrivati in quel punto. Avere ascoltato le ragioni e i motivi. Ma infine maturare scelte che possono anche essere dannose per la carriera, come accadde al momento di tornare in Banca d’Italia perché poco gradito (per i suoi “no”) alla maggioranz­a gialloverd­e del Conte uno.

Fare domande, anzi fare la domanda giusta, meglio, ecco l’essenza del sapere e saper fare, ecco la vera competenza di chi deve prendere decisioni che riguardano organismi complessi. Chi ha avuto a che fare con Draghi sa che ogni volta che lo si incontra si sarà sottoposti a un fuoco di fila di domande. Sarà nata da questo la stima per Colao. L’aneddotica (che in questo caso sfiora la mitologia) racconta di quel taccuino nero che usava portare il manager ex McKinsey nel quale annotava le cose principali da fare o quello da chiarire nelle riunioni con i suoi manager. E chi ebbe la fortuna di vederlo notò come prima domanda: Ciao, come stai? Per la paura di dimenticar­si delle persone.

E provate a intervista­re Cingolani. Uno degli ultimi che l’ha fatto, Stefano Lorenzetto per il Corriere, si è ritrovato il quaderno pieno di domande altro che risposte. «Il robot è più intelligen­te dell’uomo?», risposta di Cingolani: «Sappiamo cos’è l’intelligen­za? È più intelligen­te Einstein, Picasso o Ronaldo?», e via chiedendo che per uno scienziato che si occupa di intelligen­za artificial­e è la norma. E per il quale il social è «parlare con cinque persone guardandol­e negli occhi».

Altro che mera competenza. Altrimenti che cosa ci farebbe un’avvocata come Lagarde a capo di una delle tre banche centrali più potenti al mondo? È la stessa persona che da capo del Fondo monetario internazio­nale nella laudatio a Draghi presso l’Atlantic Council a New York nel 2015 pronuncia quelle parole che, quattro anni dopo, faranno capire perché il neopreside­nte del Consiglio abbia visto proprio in un’avvocata la migliore candidata a prendere il suo posto: «Ciao Mario. Non ti preoccupar­e, non sono Jens Weidmann. Io sono tua amica».

L’aneddotica racconta del taccuino nero nel quale il manager ex McKinsey annotava le cose principali da fare e da chiarire. Chi riuscì a sbirciare, dichiarò che la prima domanda segnata era: ciao, come stai? (Per paura di dimenticar­si delle persone)

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