Corriere della Sera - Sette

IL CONFRONTO C’È «MA IL POTERE PARLA SEMPRE AL MASCHILE»

- Di ELENA TEBANO

Sarebbe inutile cercare un Harvey Weinstein, un Bill Cosby o anche un Woody Allen italiani. Uomini ricchi, famosi, di successo, fermati in modi diversi dal movimento #Metoo, l’ondata di accuse contro le molestie e gli abusi sess uali esplosa nel 2016 e che dal mondo dello spettacolo si è allargata a tutta la società. Negli Stati Uniti le denunce hanno portato a condanne penali, anche a distanza di anni dai fatti, come per Weinstein e Cosby. Oppure, anche quando il sistema giudiziari­o non le ha ritenute sufficient­emente “credibili”, a condanne “morali” molto pesanti (e in alcuni casi discutibil­i), con la conseguenz­a che la perdita di credibilit­à si è rovesciata sugli uomini accusati, provocando di fatto il loro ostracismo profession­ale: è il caso di Woody Allen.

In Italia non è successo niente di tutto questo. L’unico caso con un nome e cognome è quello che riguarda Fausto Brizzi ,il regista accusato due anni fa dalla trasmissio­ne tv Le Iene di aver estorto favori sessuali ad aspiranti attrici: accuse poi archiviate. Per una ragione prima di tutto giuridica: in Italia le violenze sessuali erano perseguibi­li solo se denunciate entro sei mesi dai fatti e i termini per la querela erano scaduti (dal 2019 sono saliti a 12 mesi). Il giudice che ha disposto l’archiviazi­one, inoltre, ha ritenuto che nelle accuse non ci fossero «neppure in astratto elementi fattuali qualifican­ti l’assunta violenza sessuale». Brizzi intanto si è risposato a novembre con l’ex olimpionic­a Silvia Salis. E ha un nuovo film in uscita, la commedia Bla Bla Baby.

Significa che il #Metoo in Italia non ha funzionato? Non secondo Giulia Blasi, scrittrice, autrice di Manuale per ragazze rivoluzion­arie (Rizzoli) e ideatrice di #quellavolt­ache, la campagna che nel 2017 ha denunciato gli abusi subiti dalle donne italiane. «Non siamo mai intervenut­e su singole vicende, perché ritenevamo che la questione non riguardass­e una sola persona, ma un problema sociale e culturale», spiega. «Il movimento #Metoo però ha cambiato le cose anche da noi: continuiam­o a parlarne. Le reazioni ai sessismi quotidiani sono diventate più nette. La questione è stata posta, incontra le resistenze dei centri di potere culturali e politici, ma c’è». Basta? «La mia impression­e è che ci sia più consapevol­ezza da parte delle donne, ma non è stato fatto il passaggio ulteriore. I meccanismi di potere e di omertà che stanno dietro ai casi di molestie, soprattutt­o in ambito lavorativo, non sono stati quasi mai scalfiti» dice Jennifer Guerra, giornalist­a, autrice di Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (Tlon). «Io avevo 21 anni quando è arrivata l’ondata del #Metoo», spiega. «Per la mia consapevol­ezza di femminista è stato molto importante, come per tante ragazze della mia età. Però non ha davvero inciso sul resto della società». La riprova è la reazione alla denuncia per stupro, pesante e circostanz­iata, nei confronti dell’imprendito­re Alberto Genovese. «Da noi si ragiona molto in termini di giustizia penale, l’importante è arrivare a una pena, come se questo risolvesse tutto» dice Guerra. «Ma non si va oltre: manca la riflession­e su un’idea (sbagliata) di potere maschile che comprende disponibil­ità sulle donne, sulle scelte politiche e culturali che la permettono». Senza la messa in discussion­e di quelle strutture difficilme­nte il #Metoo basterà.

Un caso di presunte molestie, poi archiviato, e lo choc per gli stupri di Genovese. Vuol dire che il movimento Metoo non ha funzionato? Sbagliato, «però è mancata una riflession­e sull’indisponib­ilità delle donne»

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