SORPRESA: ANCHE LA DANIMARCA È UN MODELLO FRAGILE
A ondate, come una mareggiata che si allunga fino a tratti di costa non ancora bagnati: è così che da quattro anni a questa parte, da quando è scoppiato in America, il Metoo arriva in Europa e continua a cambiare il discorso culturale anche in Paesi che sembravano rimasti impermeabili al movimento. Succede da Nord a Sud, perché non sono solo le società cattoliche e conservatrici del Mediterraneo (come la nostra) a reagire con maggiore lentezza. Le ultime settimane ci raccontano del risveglio della Grecia (e dei Balcani), gli ultimi mesi dell’esame di coscienza dell’apparentemente moderna ed egalitaria Danimarca.
C’è sempre il volto di una donna che dice basta, all’inizio. Una silence breaker, come la rivista Time definì le attrici che accusarono il produttore Harvey Weinstein, incoronandole donne dell’anno nel 2017. Nel caso danese è quello della presentatrice televisiva Sofie Linde, che ad agosto, durante un gala televisivo, ha raccontato come a inizio carriera un pezzo grosso della tv di Stato l’avesse minacciata di distruggere le sue ambizioni se si fosse rifiutata di praticargli del sesso orale. Dopo quel primo basta è come una
A 4 anni dalla mobilitazione Usa, la denuncia della presentatrice tv Sofie Linde costringe il Paese a fare i conti con i propri limiti. E in Grecia 9 donne su 10 raccontano di aver subito avances non richieste
diga che crolla, e così è stato in Danimarca: sono stati travolti leader politici (compreso il sindaco di Copenaghen), personalità dello spettacolo, dello sport, dei sindacati. Nello stupore generale: ma come, con la promessa della parità salariale, il generoso welfare state e i congedi per mamme e papà, non è la Danimarca il campione della parità? «L’idea del nostro Paese come gender paradise è un mito. Siamo bravi, ma non così bravi», ha commentato Helle ThorningSchmidt, prima premier donna danese, in carica dal 2011 al 2015. Oggi alla guida del governo c’è un’altra donna, Mette Frederiksen, che si è schierata con questo Metoo tardivo avvertendo però che i media e i social non possono sostituirsi ai tribunali. Sociologi, scrittori e giornalisti speculano sul fatto che sia il frisind – lo spirito liberale che è nel dna dei danesi, un rifiuto del politicamente corretto e una liberazione sessuale evidentemente equivocata – ad aver impedito alla Danimarca di fare prima i conti con i limiti del suo modello.
E dall’altra parte dell’Europa? Sofia Bekatorou è una delle atlete più amate di Grecia. A fine gennaio anche lei ha rotto il silenzio, raccontando di aver subito abusi nel 1998 da un alto dirigente della federazione, e pure lì la diga è crollata, trascinando dirigenti sportivi, attori e registi come Dimitris Lignadis, direttore del Teatro nazionale arrestato con l’accusa di aver stuprato un quattordicenne.
Secondo alcuni studi, nove donne greche su dieci nei media, nello sport, nella politica, sono vittime di avances non richieste, solo il 6 per cento denuncia. E solo ora se ne comincia a parlare: la presidente della Repubblica, Katerina Sakellaropoulou, dopo aver ricevuto Sofia Bekatorou, si è augurata «che la sua coraggiosa rivelazione soffi come un vento impetuoso e spazzi via ogni ipocrisia, ogni tentativo di insabbiamento». Ma si ascoltano ancora difese oscene come quella dell’ex viceministro di Syriza e volto noto della tv greca Pavlos Haikalis, che alle molte accuse non ha trovato di meglio che replicare: «Sono un uomo all’antica, quindi quando una donna mi dice no ma io ci tengo, insisto». Lo spirito libero o quello della tradizione, entrambi fraintesi, entrambi usati come scusa per non guardarsi dentro, fino all’arrivo dell’onda.
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