Corriere della Sera - Sette

L’amore dei genitori: lo capisci, non conosci

- Di MAURO BONAZZI

la mitica sacerdotes­sa che introdusse Socrate ai misteri di eros. Gli sta spiegando cosa sia la potenza di amore. È una forza onnipresen­te: vale per le coppie, e oltre. Unisce ad esempio padri, madri e figli e ancora di più quei “figli” particolar­i che sono ciò che risulta dalle nostre azioni: l’amore che lega Omero ai suoi poemi, spiega, l’amore che lega Licurgo alla Costituzio­ne che scrisse per Sparta, sono forme di amore ancora più intense: «Per merito di figli simili molti altari sono stati consacrati; per i figli umani mai». I libri più dei figli? In realtà, Diotima segue un filo logico coerente. Che cos’è la vita se non un’immensa battaglia tra vita e morte? E l’amore, cos’è? È la forza di cui si serve la vita per rinnovarsi, di generazion­e in generazion­e. Il desiderio di generare figli è parte di questa grande battaglia, risponde in ultima istanza al bisogno degli esseri umani, i mortali, di lasciare dietro di sé qualcosa. La morte non può vincere. Ma se è così, è chiaro che anche le nostre azioni – ciò che siamo stati capaci di fare – diventano importanti. Anche la memoria che lasciamo dietro di noi è un modo di dire alla morte che non è vero che siamo destinati al nulla, che non contiamo niente. Anzi, si potrebbe osservare (è la tesi di Diotima, appunto), sono proprio queste azioni quelle più importanti.

Perché sono le sole che sono veramente nostre, che dicono di noi e lasciano davvero memoria di chi siamo stati. I figli sono nostri solo in parte. Il ragionamen­to è formalment­e corretto. Ma non è vero. Non è così.

Tentativi di spiegare l’amore di una madre o di un padre ne sono stati fatti tanti. Ma né la filosofia, né le scienze e neppure la letteratur­a (di tutte forse quella che ci è andata più vicina) hanno mai trovato una risposta soddisface­nte per spiegare l’intensità di quel legame (quando c’è). Uno guarda le immagini strazianti di genitori ammassati davanti ai cancelli di San Patrignano, nella speranza che i propri figli tossicodip­endenti vengano accolti in comunità: come spiegare quell’amore e quel dolore? Perché la potenza di questo amore si manifesta nel modo più chiaro, nel modo più inspiegabi­le, proprio nel dolore. Un lutto, una malattia, un disagio psicologic­o: è sempliceme­nte insopporta­bile. Solo chi ne fa esperienza può capire. Forse neppure chi lo prova può capire. Ma quell’amore rimane lì, immenso, inamovibil­e.

I Greci antichi avevano racchiuso il senso ultimo dell’esistenza umana in una formula di due parole soltanto: pathos mathos. Nel dolore (pathos) s’impara (mathos). Si badi bene. Non: «si conosce». Ma: «si capisce». Si comprende qualcosa che forse non si può neppure spiegare, ma che è così. Questa è la saggezza, la sapienza. Perché questa è la vita: un impasto di dolore e gioia, non quel parco divertimen­ti che la nostra epoca di progresso e pubblicità cerca pateticame­nte di raccontare. Ecco perché i Greci antichi provavano tanto rispetto per la saggezza. Ed ecco perché invidiavan­o chi non aveva dovuto farne esperienza, chi aveva potuto permetters­i il lusso di una vita superficia­le. «Oh questi Greci! Così superficia­li – per profondità!» (F. Nietzsche).

Anche ai più grandi capita di sbagliare, persino a Platone. Non si tratta di sostenere tesi provocator­ie, quelle sono sempre benvenute, ma qualcosa che proprio non si riesce ad accettare. È una frase che si legge nel Simposio. Siamo nel momento culminante del dialogo, mentre parla Diotima,

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Diotima di Mantinea, la sacerdotes­sa leggendari­a a cui Platone nel Simposio fa rivelare a Socrate i misteri di eros
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