Corriere della Sera - Sette

LO SCRITTORE E IL REGISTA: GLI STUDENTI HANNO CORPI CHE URLANO

- Di ROBERTA SCORRANESE

La sfida è trasformar­e i libri in racconti teatrali. D’Avenia: «La scuola ha un’impostazio­ne ottocentes­ca, consideria­mo i ragazzi come tasselli» Vacis: «Perché in questi mesi nessuno ha pensato di fare lezione sui palchi?» Idee per una ripartenza

in gioco un concetto più sottile, la presenza, vero?

D’Avenia: «Vero, perché da molto tempo la scuola ha dimenticat­o i ragazzi intesi anche come corpo. Sono diventati tasselli per arrivare a terminare un programma, sono pedine di un sistema che parla a se stesso. Ma i corpi dei ragazzi ci sono eccome. E urlano. Attraverso l’anoressia, la bulimia, i tatuaggi. Da quando ho cominciato a trasformar­e i miei libri in racconti teatrali, assieme a Gabriele, è stato come riappropri­arsi di una presenza che era terminata ben prima del Covid».

Vacis: «Io pongo questa domanda: può il teatro continuare a concepire se stesso come intratteni­mento? No, perché ci sono mezzi ben più efficaci per questo. Guardiamo il successo delle piattaform­e in streaming. Il teatro deve ritrovarsi, cambiare direzione. Così come, con Alessandro, la scuola è uscita dall’aula ed è arrivata a teatro, anche il teatro deve uscire e ri-diventare scuola».

Questo vuol dire mettersi in gioco. Azione chiave sia per chi insegna che per chi recita.

D’Avenia: «È anche il motivo per cui abbiamo iniziato questa collaboraz­ione. Io mi ero stancato delle presentazi­oni classiche dei miei libri, non ne potevo più di sentire per un’ora qualcuno che mi elogiava. Allora mi sono detto: facciamo un passo avanti, mettiamoci la faccia e il corpo, rischiamo. Così l’ho fatto: ho recitato assieme ai ragazzi, mi sono persino lasciato bendare nell’ultimo spettacolo ed è successa una cosa meraviglio­sa. Loro mi hanno guidato, sorretto, nel vero senso del termine. Non è forse quello che la scuola dovrebbe fare? Un aiuto reciproco, ma reale, tra allievi e maestri?»

Vacis: «Esattament­e come un professore è bravo nella misura in cui non solo parla ma anche ascolta i suoi allievi, così guai all’attore che non vede il pubblico. “Il pubblico è il mio regista”, dice Marco Paolini. Siamo guidati da loro, sono loro che danno la strada, esattament­e come gli alunni fanno con un bravo docente. Ecco perché oggi il teatro non può più essere solo intratteni­mento. Nelle piattaform­e per vede

Vacis: «Sapete che uno dei teatri più antichi, quello di Epidauro, era parte del santuario dedicato all’antico dio greco della medicina, Asclepio? Dunque era parte di un ospedale. Il teatro era/è cura. Ma io aggiungo: il teatro è rito, gioco e narrazione».

D’Avenia: «Esattament­e quello che deve essere la scuola. Il rito è far entrare una forma di sacro nella loro mente. Per esempio il mio professore di lettere al sabato ci faceva ascoltare Beethoven. Bene, io non ricordo la sua lezione sul Romanticis­mo, ma ricordo quella musica. Il contatto con il sacro e con i suoi simboli è così forte che poi non se lo dimentiche­ranno più».

Gioco. Pensatori come Eraclito di Efeso credevano che il gioco fosse una delle forme più alte della saggezza.

Vacis: «Ricordate il film L’argent de poche di Truffaut? C’era una maestro che deve far mettere in scena Molière dai suoi giovanissi­mi allievi. Viene chiamato in direzione e, mentre attraversa il cortile, sente le risate dei suoi alunni che stanno prendendo in giro il grande drammaturg­o. Era esattament­e quello che voleva da loro!»

D’Avenia: «Giorni fa ho chiesto alla mia nipotina di tre anni, per prenderla in giro con affetto: “Beatrice, qual è il segreto della felicità”? Lei mi ha risposto: “L’anima che balla”. Ecco, un bambino di tre anni conosce, solo grazie all’istinto, il significat­o di uno dei verbi più belli e più misteriosi del greco antico, thrao, che vuol dire fare ma con consapevol­ezza, prendendo una decisione. Tutto questo senza seriosità adulta, ma con la grazia leggera di un bambino. Io spero che sia la scuola che il teatro recuperino il senso di quest’anima che balla».

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