L’AQUILA 12 ANNI DOPO I RAGAZZI SI SALVANO, I GENITORI NO
Valerio Valentini in racconta la città devastata dalle scosse attraverso un romanzo di formazione. «Ci si abitua a farsi piacere le cose che si hanno intorno, pure se non sono né belle, né salutari»
dorati delle impalcature (ricordate quanto costarono?), in piazza Duomo, dove ogni 6 aprile si nominano i 309 morti di quella scossa che nel 2009 ha avuto l’epicentro nell’intera città e nella conca aquilana, 55 comuni devastati. Vittorio il protagonista (e narratore), Silvia, Cinzia, Francesco: amici e compagni di scuola e di attivismo, anche se non sempre in linea. Silvia è anche l’amore. Ci accompagnano nel prima: le battaglie contro la riforma Gelmini, l’occupazione, le lezioni autogestite. Nel durante: la paura, la normalità della paura, la documentazione costante e la ricerca dei siti più informati sulle scosse. Nel subito dopo: senza scuola (per un anno), sparpagliati tra tende, alberghi sul mare, C.a.s.e, Map, ospiti di nonni in altre città. E poi nel reincontrarsi, cinque anni dopo, tra locali che riaprono, salendo le scale di qualche edificio rimesso a posto, quasi disabitato e con lo stesso odore di muffe e polvere. Simili e diversi, per l’età certo, e per esperienze: Vittorio è andato a studiare a Trento e come un migrante gli è difficile comprendere.
Però l’estate non è tutto è un romanzo di formazione di una generazione che ha dovuto educarsi vivendo un trauma collettivo, ed è anche un romanzo politico: Valerio Valentini, cresciuto a Collemare, borgo sugli Appennini, vincitore del Campiello Opera prima 2018 con Gli 80 di Camporammaglia (Laterza), alla denuncia preferisce la narrazione, far vedere e non spiegare. Anche quando comportamenti, abitudini vecchie e nuove, non solo di quel luogo, sono esecrabili.
Infastidiscono i buoni pensieri, chi li incarna e chi li ha pensati. Lo fa mostrando la città attraverso abitanti e luoghi, entrando e uscendo tra gli anni, gli animi, le relazioni, quello che vivono e pensano i genitori. Quello che vivono, pensano e desiderano ragazzi e ragazze: che sia andarsene dalla provincia o restare cercando strade per una possibile-impossibile normalità.
Il romanzo inizia in ospedale con gli amici, ex allievi, al letto della prof a pezzi per un più mostrato che tentato suicidio. Dai finestroni lo skyline di L’Aquila, le croci mozze delle gru. Il dentro delle persone come il fuori della città «mitridatizzato agli scempi della vita», assuefatto e immune alla sostanza tossica, commenta Vittorio. È Francesco, incline alle arringhe e al giustizialismo, a sintetizzare la situazione: «Mi manda in bestia che finché a fregare sulle pratiche so’ i poveracci, lo posso pure capì. Ma tu non tieni solo i soldi a palate. Tu sei pure laureata, sei una professoressa di filosofia, sant’iddio tuo marito notaio… Ma pure tu ti metti a arrafà in ‘sta maniera così becera. Ma allora non ci sta proprio speranza che qualcosa cambi pe’ ‘sta città…».
«Una volta l’anno tutte le telecamere tornano all’Aquila per fa vedere come si sta», dice Valerio. «Da un anno all’altro si valuta cosa è andato bene, cosa è andato male, si contano le ristrutturazioni, quelle che mancano. Non volevo concentrarmi sulle inefficienze, i ritardi, le lungaggini istituzionali, le ruberie, gli ammanchi, le pastoie burocratiche che pure ci sono stati. E sono stati ben raccontati. Mi interessava mettere in luce il tessuto sociale rimasto in ombra nella grande narrazione sui media. I 364 giorni che stanno tra i 6 aprile di ogni anno, quelli del malessere strisciante, dell’assuefarsi alla bruttezza, alla precarietà». Fatto anche di piccole-grandi furbizie. «Volevo non idealizzare il popolo innocente. Quella presunzione assolutoria da parte di cittadini e cittadine che additano tutte le negligenze alla classe politica o dirigenziale. Quel ritenersi innocenti, “nonostante”...
Ho mostrato, anche, il popolo partecipe delle stesse virtù, delle stesse colpe che riconosciamo negli scandali. Ci sono state persone che, nella loro etica della ri-compensazione, hanno tentato, attraverso piccoli e grandi reati, di prendersi qualcosa che il terremoto avrebbe loro tolto. È una presa d’atto civile che va di pari passo con il decadimento sociale e strutturale anche di una parte della borghesia agiata. Forse è quello che è mancato davvero a L’Aquila. E non solo a L’Aquila».
I ragazzi no. Il figlio della prof, Jacopo, resta persino incastrato dalla scelleratezza dei genitori. «Con lo squallore si familiarizza e quasi ci si affeziona. Vittorio è persino rimproverato di aver tradito la città dai compagni rimasti a L’Aquila.
Poi loro stessi dicono: è una città di merda. Però è la loro città. E anche quegli sprazzi di normalità che riescono a ricostruire sono una normalità allucinata: discoteche, pub, feste in maschera sono a cinque metri da macerie, ponteggi case sventrate. Si accontentano di scampoli di esaltazione. A quindici, sedici, vent’anni serve pure quello e a quello ci si appiglia».
Vittorio che, ammettiamolo, già da piccolo è un po’ snob e critico… Le stranezze le nota, durante le camminate con Cinzia, nel ritrovarsi con Silvia, le sente sulla pelle. «Cade, però, nello stesso errore: ha passato molto tempo a Trento, ha studiato… non capisce in che modo e perché una persona, Silvia, con cui ha condiviso poesie, libri, rabbie e ha amato, sia così diversa da
Lo scrittore e giornalista Valerio Valentini, nato a L’Aquila nel 1991 e la copertina del suo romanzo
La nave di Teseo come se la ricordava. In molte città, non solo a L’Aquila e pure senza un terremoto, ci si abitua a farsi piacere le cose che si hanno intorno, pure se non sono né belle né salutari. Non lo sono per i ragazzi nati nei ‘90 nonostante abbiano una certa idea di cosa è il mondo, sentano il morso della storia, della modernità sia pure mediata da tv, giornali, social. Vivono relegati in questa provincia, un po’ apatica, autoreferenziale. Prima del terremoto vogliono andarsene, dopo restano e si fanno andare bene. Quasi anestetizzati».
Pure il “critico” Vittorio… «Prima del terremoto si era ritrovato a fare una cosa estremamente importante per lui, il primo sesso, l’amore con Silvia, in un centro commerciale costruito e mai aperto, una carcassa edilizia. E ora più maturi si ritrovano a fare sesso nella vecchia casa di lei, inagibile e abbandonata».
Quale futuro li aspetta? «Dicono che ci vorranno 10 anni per la ricostruzione, una vita», arringa Silvia durante un’assemblea cittadina. Siamo a 12… «Tre, quattro anni ci sembrava già un tempo lungo», dice Valentini, ricordando il sé stesso-Vittorio. «Nel frattempo, ci chiedevamo che fare in una città che è una quinta vuota, con qualche militare agli angoli e qualche operaio impolverato…».
Valerio, che vive a Roma, ha mantenuto un’appartenenza severa verso L’Aquila e gli aquilani e, impietoso, non nega loro il suo disappunto per le retoriche del dopo terremoto. La nostalgia per “la città colta e universitaria”: «Un brand per vendere meglio salumi e formaggi locali», fa dire a Vittorio. L’audacia e la baldanza montanara degli abitanti si era infiacchita ben prima del sisma: «Una parte della città ha reagito in maniera più energica, risentita, indignata, però è stata una parte marginale», dice. «Il terremoto ha fatto meno fatica di Carlo V a reprimerla». I like ossessionati per contarsi nel primo grande evento catastrofico in epoca social. L’afasia urbanistica, incapace di ripensarsi come comunità e poi come abitanti di un luogo.
«Oggi, 12 anni dopo, le transenne sono aumentate, sono transenne che danno speranza: sai che oltre si sta lavorando per ricostruire. Nell’ultimo anno, però, si è rallentato rispetto a tre o quattro anni fa.
«La gente comune partecipa delle stesse virtù ed emozioni che riconosciamo negli scandali. Ci sono state persone che, nella loro etica della ri-compensazione, hanno tentato, attraverso piccoli e grandi reati, di prendersi qualcosa che il terremoto avrebbe loro tolto»
C’è un grande problema di edilizia pubblica: la solita babele burocratica marca i ritardi. Non basta tirare su le case, ritinteggiare… Ci sono edifici in centro storico impressionanti da quanto sono ripuliti. Palazzi del ‘500, ‘600,‘800. Tante chiese, tante piazze. Angoli rimessi a nuovo. Quegli stessi palazzi non sono ancora abitati o non del tutto. Il vero ritardo, però, è nella ricostruzione del tessuto sociale ed economico. Nel processo di ripensare la città servivano gli operai che impastavano il cemento e tiravano su i ponteggi: c’è stata tanta malta per gli edifici, e non abbastanza per ripensare una città come doveva (avrebbe dovuto) essere migliore di quella che era prima di andare in frantumi».